Antologia critica

GUIDO BALLO
La linea dell’arte italiana dal Simbolismo alle opere moltiplicate
Edizioni Mediterranee, Roma, 1964

Giorgio Ramella, che ha frequentato l’Accademia Albertina alla scuola di Paulucci, ha cercato per alcuni anni una nuova figurazione portando l’Incidente o Scontro a una mitologia del nostro tempo: la scomposizione, e soprattutto la stesura materica, nelle preziosità addirittura tonali anche se risolte in superfici, dando valore alla dinamica del segno, restavano però di origine post-cubista. In questi ultimi tempi Ramella si è orientato verso una pittura più larga, meno preziosa, incline ad essere sconvolta dalla presenza attiva di elementi contrastanti: presenza della vita di tutti i giorni. In alcune immagini questa larghezza di respiro, che trae stimoli anche da certo Léger, si concreta in struttura mossa: in altre, dove la figurazione di oggetti vuole essere più distaccata e narrativa, ancora l’intenzione risulta scoperta. Si tratta comunque di un giovane che ha eccezionali doti pittoriche.

 

MARZIANO BERNARDI
Giorgio Ramella, in “La Stampa”, 1964, Torino

Per capire il momento attuale – e dicendo momento attuale vogliamo riconoscere all’opera di Ramella il valore di esperienza “in corso” – è meglio riguardare prima attentamente i disegni; quelli, in particolare, che rivelano di essere vere e proprie “idee” per i quadri maggiori esposti nella mostra della Galleria La Bussola. Sono disegni aderenti alla visione di un oggetto, o di una figura, o di un’architettura spaziale che sentiamo esistere, come qualcosa più di una semplice finzione, come probabilità stessa del vero, dal quale traggono, del resto, la loro prima ispirazione. Sono, anche, disegni rivelatori di un prepotente e insieme patetico desiderio d’ordine, se per ordine si intende sia l’armonica disposizione degli spazi e dei valori cromatici, sia il controllo mentale di tale disposizione. L’opera di Ramella mostra infatti di voler uscire dall’impasse del gesto impulsivo, del quale tuttavia conserva la vivacità, e dall’astrazione, della quale tuttavia conserva quel tipo di indefinitezza delle immagini che conferisce ai dipinti, grandi e piccoli, la toccante sensazione di immagine misteriosa. E questo è vero, cioè verificabile, sia nella vasta composizione di Vetrina che in altre piccole come La strada o le diverse Città. Il mistero è una sensazione di insieme, ché, praticamente, i dipinti di Ramella appaiono oggi composti di frammenti, o meglio di “parti” lucidamente analizzate, ciascuna in sé significante e riferibile ad una realtà, che si congiungono e si compongono, che si affacciano o si ritraggono ai margini di grandi spazi intensamente colorati e che perciò diventano emblematici…

 

PAOLO FOSSATI
1965

Ramella, con tutt’altro lavoro, incastra pannelli di colore con brani irrigiditi di realtà, come componesse persistenze ottiche, tappezzerie che la mente apprende nel correre delle affiches o dei simboli o dei ricordi stessi. Ma è la sua una freddezza intimidatoria, il ricondurre a una sola sequenza i momenti più disparati, emblematicamente arresi su un piano e un tempo unici. E allora si riflette all’ordine che ne vien fuori: la nessuna fallosità degli accostamenti, l’assenza di contraddizione fra momento del ritaglio e quello dell’inserzione: la lacerazione fra brandello e brandello è caduta, l’afflusso è regolato da una strepitosa assenza di spessore, di perdita, di reazione. È qui il succo di questa pittura: non favola o allucinazione, ma tornare a declinarsi un’esigenza incontestata, una lucidità senza elegia: e perciò illuminante e preoccupante.

 

GUIDO BALLO
Ramella, in catalogo mostra
Galleria Milano, Milano 1967

I primi quadri di Ramella, dopo aver frequentato i corsi di pittura all’Accademia Albertina di Torino, evocavano scontri di automobili: il colore a olio era steso in strato sottile di tonalità basse, sui grigi e sui bruni, e le composizioni, sghembe, con spazi vuoti, davano il senso di strutture sconvolte e tuttavia appiattite; la materia pittorica risultava però raffinata, fino alla preziosità, ed era di origine tonale anche se tendeva alle superfici. Dopo queste esperienze Ramella ha castigato ancora di più tale materia pittorica, fino a renderla acre, in un riscatto di spazialità più incombente e larga, puramente timbrica, dove la dinamica delle zone accese e delle altre in riposo fosse più segreta. Su questa via dava anzi maggior valore, nel ritmo compositivo, agli elementi strutturali: che diventavano sempre più in rilievo, dal fondo piatto, fino ai risultati, qualche volta, della pittura-oggetto. In realtà, mentre con la strutturazione, evocata in rilievo, ha finito col dare nuova importanza alla luce livida, Ramella sente sempre l’aggancio al costruttivismo: ma nella ambiguità di una soluzione plastica oggettiva, fisicamente in rilievo e, d’altra parte, di proiezione mediante effetti luministici sulla superficie, che dà agli elementi raffigurati in aggetto maggiore senso spettrale. È così che, anche in quadri di piccolo formato, ottiene sempre un largo respiro: dove i nodi compositivi, essenziali, nudi, con freddezza calcolata, che però nasconde un calore racchiuso da ostinazione tipicamente piemontese, diventano ermetici, suggestivi. Fanno intuire ancora lo scontro, questa volta astratto, di forme prepotenti, anche se rigorose e sintetiche, in rilievo, tra l’apparente inerzia delle superfici.
È una concezione dinamica della vita, intesa come divenire delle origini, ed espressa con ritmo plastico e acredine di colore, suggerito dal costruttivismo meccanico. Per questa sua severità di linguaggio, inventato con lucida fantasia, Ramella si rivela tra i giovani pittori più seri, che s’impongono all’attenzione critica.

 

ALDO PASSONI
Gli “Evens” a due dimensioni di Giorgio Ramella
in “Le Arti”, n. 4, 4 aprile 1968, Milano

I più recenti dipinti di Giorgio Ramella si pongono, pur in una dimensione silenziosa, fra le espressioni più sottilmente inquietanti che ci sia dato vedere nell’arte d’oggi. Non a caso sul sovrapporsi di ampie zonature di colore timbrico, che potrebbero tendere a un costruttivismo se anziché concludersi a vicenda non si frantumassero nei punti di giunzione, si protendono ancora, da intercapedini apparenti, oggetti desunti dal mondo della tecnica intrisi di luce.
La rappresentazione così si attua mediante la sopraffazione esistenziale di oggetti o di piani che si sormontano a vicenda in aspre torsioni e inattese cesure. E sia che Giorgio Ramella tenda ad accentuare, di volta in volta, una presenza (l’oggetto) o una sospensione (lo spazio), l’elaborato assume per contrasto un valore metafisico per quella dualità che è data, pur nella coesistenza interrelativa fra la parte statica e quella dinamica, fra la parte lacerata e quella lacerante e che si cela come uno spacco, sottile e profonda nella simultaneità degli avvenimenti.
Fra gli esempi più dichiarati di tale operazione, si può citare Come una lama (150 x 170), dove lo scatenarsi di una lama di luce in un ambiente luminoso, trova una struttura neutra, casualmente selettiva, prima di riprendere la propria direzione. E fra i più rappresentativi si può citare Apparizione (110 x 120) dove sulla sezione di due piani, frantumati e integrati, spunta l’oggetto inquietante a sua volta spezzato, partecipante con i propri interspazi ad entrambe le sezioni, con una staticità che è solo tesa a coglierne la dinamica molecolare, come un fatto appena scattato e per nulla finito. Così le sezioni di binario o le superfici accartocciate permangono in quell’attimo di fissità, prima che il loro divenire possa evolversi e accadere, situandosi in una qualsiasi direzione possibile e in una qualsiasi situazione possibile.
E stranamente c’è sempre unita a questa macrovisione o microvisione come la si voglia intendere, così nitida, così penetrabile nei suoi meccanismi costitutivi, la sensazione di un evolversi inarrestabile, di uno scatto che la nostra precisa visione non potrà impedire, di un evento che la nostra conoscenza non potrà evitare.

 

LUIGI LAMBERTINI
Giorgio Ramella, in catalogo mostra
Galleria 2F, Trento 1968

Se di fronte a qualsiasi opera sono indispensabili partecipazione e tempi di lettura approfonditi, nel caso dei dipinti di Giorgio Ramella tale attività dell’osservatore deve prolungarsi, meglio, va ripresa ed ulteriormente esplicata. A prima vista infatti i quadri del giovane torinese colpiscono e suggestionano, soddisfano insomma per quelle accensioni, quei riverberi e quella gradevolezza complessiva da cui sono apparentemente strutturati. Al loro interno, al di sotto di siffatta apparenza però esiste una effettiva e particolare tensione costituita da un insieme di elementi che dialetticamente giungono alla precisazione di un tema non certo formale e che soltanto ad una attenta lettura può essere compiutamente enucleato ed individuato.
Così lo spazio che Ramella ottiene con un sistema di alternanze “negativo-positive”, e quindi la luce che lo permea, sia per l’impaginazione dei dipinti sia per i giochi prospettici che lo interrompono raggiunge, all’interno di una sospensione metafisica, una lievitazione stridente ed un pathos addirittura epico. È come se si assistesse ad un distacco, ad un repentino raggelamento, al dilatarsi concluso di una dimensione che potremmo definire oggettiva per certi riferimenti indiretti e che il pittore struttura mediante un’alternanza di situazioni dovute allo specifico contrasto ed alla coesistenza fra parte statica e parte dinamica, insite nei dipinti stessi.

 

GIORGIO BRIZIO
Artisti d’oggi: Giorgio Ramella
in “Graphicus”, n. 3, marzo 1969, Torino

Giorgio Ramella, 30 anni, torinese, maturità al Classico, diploma all’Accademia delle Belle Arti. Attualmente insegna figura al Liceo Artistico di Torino.
Ho seguito Ramella da parecchio tempo, fino al giorno in cui decisi di conoscerlo, spinto dalla signora Martano, condirettrice dell’omonima galleria torinese, che mi disse di aver acquistato un dipinto di Ramella perché “è un ragazzo serio, che si è messo su una bella linea di pittura”.
È strano come i dipinti diano una sensazione esatta anche del tipo fisico del pittore. Infatti Ramella ha una figura asciutta, quasi spigolosa, veste in tinta unita, sobriamente. Il suo spirito è sornione, taciturno, parla poco di se stesso; con cognizione esatta degli altri.
Come la sua pittura, tutta intitolata a più ampi silenzi, a una dinamica muta, quasi che la perfezione tecnica degli ingranaggi elimini il più piccolo fruscio di quei movimenti che le sue forme statiche stanno sicuramente per compiere, così l’uomo-spirito Ramella.
Perso dietro una umanizzazione, una visione surreale della matematica, di volumi geometrici, dei sistemi e delle formule algebriche, alla continua ricerca della risoluzione pittorica della più difficile equazione matematica, il sornione Ramella è tutto teso nell’intento di portare al suo pubblico una visione gioiosamente irrazionale di cui quei problemi in gioventù, a scuola, soltanto pochi – irrazionali – potevano gustare.
Da un punto di vista tecnico-pittorico possiamo partire dal Mondrian dell’astratto-concreto, al primo Klee e, come impaginazione, all’ultimo Licini dei voli interplanetari, con un gusto personale ed una impronta decisamente tipica, forse troppo, data la giovane età del pittore.
Ramella è intervenuto a questa sintesi, a questa essenzialità formale, con una ponderata progressione selettiva.
I primi quadri parlano della città, vetrine che rispecchiano ombre di passaggio, luminose pubblicitarie, figure (molto rare) sfuggenti, oggetti di uso comune, sull’esempio degli americani del “Village”.
Il passaggio intermedio riguarda l’isolamento di un particolare della città, ingigantito e risolto già con un grafismo molto delineato, un linguaggio formale geometrico, concreto. Di norma sono finestre o vetrine con il vetro spaccato (una pittura-reportage su fatti di cronaca e conflitti sociali, tipica sempre degli americani pop) che mettono a nudo oggetti metallici, freddi, taglienti. I colori si affinano, avviandosi verso un rigore tonale tendente alla purezza del mono-cromatismo: bianco su bianco, grigio, una varia gamma di neri. Iniziano le sfumature ad aerografo e i giochi d’ombre. L’impaginazione si fa meno dispersiva con un equilibrio di poco asimmetrico.
Le ultime opere sono, a mio giudizio, un ulteriore ingigantimento del particolare, elevato alla sua scarna purezza: lirico nella sua quasi esangue essenzialità.
Alcuni titoli mi sembrano molto significativi: Tensione, Luce calda e luce fredda, I riflessi della notte, L’ombra e la luce, Il silenzio, Il grande triangolo. Fino all’ultimissima opera, La nascita di un triangolo, piena di sgomento per l’improvvisa folgorazione di un momento, percepito come immagine-simbolo, che è forse una summa di tutte le ricerche e le espressioni spirituali del Ramella nel campo della poesia dei solidi, nella proiezione delle luci e delle ombre: di un silenzio che parla, di un immobilismo dinamico.
Ultimamente si è notata una evoluzione del riscatto di una spazialità più ampia, timbrica quasi, con tendenza ad una concezione dinamica del costruttivismo meccanico, dell’ingegneria applicata. Il calcolo del cemento in poesia.
Le sue ultime forme fanno pur sempre intuire il primitivo scontro (le vetrine infrante), soltanto che il reportage-pittorico non è più diretto verso i problemi della città o dell’agglomeramento urbano, bensì verso ideali battaglie tra volumi e solidi geometrici, tra le loro proiezioni, la loro scomposizione secondo piani assiali surrealmente intesi. Visioni che, come dicevo, conferiscono ad una materia senza anima una spiritualità interiore, non priva di un certo qual sorriso ironico, bonario, affettuoso.
Mi pare logica e molto centrata la chiusa di Aldo Passoni alla presentazione della personale di Ramella alla Bussola: “Se nei dipinti del 1967, la sopraffazione di oggetti e di piani che si sormontavano a vicenda, in aspre torsioni e in accese cesure, riportava incessantemente la sensazione di una casualità incombente, il cui graduale inserimento nella coscienza costituiva, come ai tempi dei surrealisti, una nuova realtà, oggi possiamo invece stabilire che Giorgio Ramella è riuscito a realizzare nei suoi dipinti, per usare la decisiva definizione di Paul Éluard, una vera fisica della poesia”.
La migliore definizione per una sensibilità poetica, percettibile – pur nella castigatezza della materia pittorica – nel segreto e silente ritmo compositivo delle strutture o forme dipinte da Giorgio Ramella.

 

GIUSEPPE APPELLA
Giorgio Ramella, in catalogo mostra
Galleria L’Arco, Roma 1971

Ad analizzare con calma i risultati recenti dell’opera grafica di Giorgio Ramella, avendo la possibilità di stabilire raffronti con le incisioni degli anni 1963-1965, l’annotazione predominante resta quella di un “progressivo sviluppo di un fenomeno” nato dall’esercizio di costruzione e correlazione delle forme fenomeniche; cresciuto con meditazioni prolungate sul tema neoplastico, orizzontale-verticale dai fondi grigi e neri, dalle leggere varianti dei rettangoli e dei triangoli; maturato sulle astrazioni di un tema – il mare – che da tempo appassiona l’avanguardia (basti pensare a Mondrian) e che a Ramella ha dato il “la” per un prolungato lavoro sui fenomeni della percezione visiva, sui problemi della luce, per una ricerca di purezza plastica mediante la riduzione dei mezzi alla semplice espressione di un rapporto nell’equilibrio. Un rapporto dinamico, naturalmente, che nella grafica restituisce al colore la sola forza generativa di campi di energia e di ritmi che tendono a dare all’opera una funzione più che altro spaziale. Il foglio stampato, allora, si fa centro di irradiazione, sorgente di luce derivante da ritmi interni e non da fonti esterne all’incisione o alla serigrafia. La stessa architettura delle linee, scabra pur nel ritmo dei valori geometrici, vibra sempre per un variare di luce, mai per un azzardo lirico.
In tal senso il lavoro di Ramella si presenta come una delle poche testimonianze di strutturazione di una nuova spazialità; un’opera purgata, quindi, dalle tendenze ad esagerate espressioni sentimentali-descrittive e dallo stesso romanticismo-simbolismo che fa da padrone in una buona parte delle ricerche attuali.

 

RENZO GUASCO
La forza degli occhi e la forza degli oggetti
in “Il Dramma”, novembre 1971, Torino

La “mostra del mese” è questa volta, per me, quella di Giorgio Ramella, che ha inaugurato la stagione della Galleria La Parisina.
Ramella, 32 anni, torinese, non è alla sua prima personale, anzi ha già dietro di sé una storia abbastanza fitta di esposizioni e di riconoscimenti. In anni di disorientamento e di continui cambiamenti di fronte, ho sempre ammirato la coerenza con la quale Ramella, servendosi dei mezzi tradizionali della pittura, ha perseguito la raffigurazione di forme elementari (quasi “strutture primarie”), cui trasferiva una concezione totalmente “oggettiva” delle cose e della natura.
La mostra di quest’anno, intitolata Il mare, rappresenta una svolta (non una inversione di rotta) e segna un salto di qualità. Luigi Carluccio, nella introduzione al catalogo, scrive che “con le opere di questa mostra la stagione dell’apprendistato di Giorgio Ramella si dispone… interamente alle sue spalle; anche se è vero che ogni autentico artista non finisce mai di apprendere” e spiega, con finezza psicologica, come Ramella abbia “realizzato, nel corso degli ultimi dieci anni, il suo itinerario pittorico, sino a raggiungere con una serie di aggiustamenti di approcci di scelte progressive ed esclusive, rigorosamente attuate sia nel campo degli strumenti pittorici che in quello delle risonanze poetiche, questo momento… capitale”.
In un periodo nel quale tutti i pittori, compresi i più famosi, tendono a produrre, anziché a creare, nel quale le mostre hanno l’aspetto del bazar, il caso di un pittore che dipinge pochi quadri, con una pazienza infinita, cercando non il facile effetto ma una pura effusione lirica, mi pare insolito e ammirevole.
“La struttura plastica e cromatica degli ultimi dipinti… è fatta di lamelle, di rifrazioni graduate della luce, di strisce di colore ierate su un modello uniforme…” (Carluccio). Le immagini (o apparizioni) che si liberano sul mare, o nel mare, appartengono alla natura (gabbiani, pesci, meduse?) e sono a un tempo pure forme intellettuali (forme geometriche, rappresentazioni grafiche di formule matematiche?).
Nel cielo e sul mare la luce – una luce azzurra, rosa, lilla, grigia: luce che è la vera protagonista di questi quadri – aumenta per scatti impercettibili, come quando, nei teatri di un tempo, si accendevano a poco a poco le luci della ribalta.
Il pericolo dal quale, forse, Ramella si deve guardare è quello di diventare schiavo di un’esecuzione troppo accurata, di un puntiglioso artigianato, che potrebbe frenare la sua felicità inventiva.

 

LUIGI CARLUCCIO
Giorgio Ramella
in “Gazzetta del Popolo”, 1971, Torino

Il silenzio, del resto, come elemento di fondo di un’intuizione poetica, è l’elemento che domina le opere recenti di Giorgio Ramella. 
Esse corrispondono ad una stagione esemplare, e conclusiva di ogni esperienza passata, che il giovane artista torinese ha dedicato all’idea del mare. Il silenzio, allora, è il silenzio proprio del mare, così profondo e lontano, eppure così denso di echi e di riverberi, giacché è sempre uguale e sempre diverso.
Questo silenzio ha una sua forma emblematica, il gabbiano, interpretato come un fenomeno della memoria, un’eco, uno spettro o una impronta di luce, a volte anche come semplice e vaga impronta di un’ombra nell’ombra. Un gabbiano fermato nello spazio del cielo che ha appena trafitto col suo volo. Questa a sua volta è la figura in cui diventa riconoscibile il motivo araldico di un’estate, ma anche quel guizzo di luce magica, che già nell’Omaggio a Dylan Thomas fa del cielo e della terra uno spazio creato dalla medesima matrice azzurra.
Con un’evidenza sentimentale alla quale corrisponde una rigorosa evidenza plastica. Ramella si è severamente impegnato a trasmettere nell’esecuzione pittorica, ed attraverso l’esecuzione, tutta la densità e tutta la chiarezza di questo suo momento poetico.
La struttura dei suoi dipinti è di classica semplicità. È fatta di lamelle, di rifrazioni graduate della luce, di strisce di colore iterate su un modulo uniforme; come tante variazioni di uno stesso colore cangiante secondo l’incidenza della luce. In questo trapassare della intensità luminosa tra il riflesso abbagliante e l’ombra più profonda, tra la lama di sole e il cupo della notte, intuizione poetica e struttura coincidono, crescono l’una con l’altra accompagnando in una progressione lenta l’apparizione di un’immagine perfetta.

 

ALCIDE PAOLINI
Giorgio Ramella, in catalogo mostra
Galleria Gian Ferrari, Milano 1978

Legato a evidenti progressioni sensitive, che lo portano per scatti successivi e associazioni a sviluppare un disegno non premeditato ma ugualmente preciso, Ramella parte per questa sua esplorazione della natura dalla serie delle “sedie”, con il loro fagotto misterioso e una luce che comunque le rischiara, le segnala e nel medesimo tempo le isola in uno spazio senza confini. Passa poi per le “finestre” e i tagli bassi dei giardini lussureggianti, tra i quali guizzano lame taglienti di luce, e una figura di donna nuda si sottrae, lasciando ipotetiche orme del suo passaggio; oppure frammenti di colonne e rettili propongono una loro ulteriore dimensione, tesa a rompere il naturalismo di un paesaggio che ha già tuttavia in sé, nella successione dei toni e dei timbri cromatici, uno spazio come di sospensione e di attesa. E si conclude per ora con il corpo di donna in un interno, caricato di una sensualità che oltrepassa il dato oggettivo per trasformarsi nel richiamo inquietante di una situazione esistenziale allarmata. Questi suoi quadri si propongono insomma come istantanee rubate di una realtà sorpresa in un momento di tensione: di qui la scoperta, come una sciabolata, del mistero, ma non ancora la sua soluzione.

 

FLORIANO DE SANTI
Farandole di sensazioni e ricordi esistenziali
in “Brescia Oggi”, 22 aprile 1978, Brescia

Nella situazione attuale, tra gli artisti ai quali si devono risultati apprezzabili, uno dei più personali, pieno di vitalità e di apparenti intime contraddizioni è Giorgio Ramella. La sua koinè espressiva ne farebbe un pittore quasi “classico”, intento ai problemi della forma e al recupero di un filo diretto con la grande arte del passato più recente. Per molti dei suoi lavori si potrebbero richiamare precedenti del “realismo magico” europeo, tanto sono fulmineamente individuati i frammenti cosmici che attestano il rapporto visivo con la realtà. Su questa base linguistico-culturale si innesta il rovello della sua personalità insoddisfatta, sempre proclive a sperimentare nuove direzioni, con compiacimenti brevi e subito negati che si ribaltano sul suo modo di fare pittura.
Nel 1975, a proposito di una sua acquaforte incisiva per il “Club G4” di Ivrea, tentavo di dare della sua poetica sfuggente, ormai formata e matura, una caratterizzazione che, se ancora oggi può sembrare valida, è prova della fedeltà costante dell’artista torinese alla sua ispirazione più sincera e alla sua vera vocazione lirica. È per questo che mi sembra di qualche interesse riportare qui quello scritto, per introdurre il discorso più specifico sulla stagione ultima della sua produzione.
“La pittura di Giorgio Ramella dalla prima fase di ‘valore metafisico’, come giustamente ebbe a definirla Aldo Passoni, è passata ad una ricerca più sofisticata e vagamente allusiva. Ora l’ossessione lirica per la materia fatta viva dalla luce è assai vicina a quella degli americani Carl Holty e Theodoros Stamos. Ma non si può parlare di vuoto cosmico, poiché nella sua pittura la nozione di hasard collima con quella di uno scatenamento di impulsi formativi a livello subliminale, interamente istintivi. Sta di fatto, comunque, che quel lirismo è l’inizio di un modo di connettere le macchie di colore, in forme magnetiche che non mi pare siano proiezioni psicologiche o testimonianze di fantasmi spinti sulla tela, quanto un forzare il velo della retina, che ormai è una sorta di cateratta culturale, arrivare a rivelare nella mutazione una misura e una sostanza che ha del fuggente, sempre pronta a frangersi e a vanire.
Già con la serie de Il mare, vale a dire con i dipinti più significativi del 1971, l’artista sollecita la materia ad una gara inventiva il cui traguardo è la captazione, direi, l’affioramento delle formes apparitionelles a sollecitazione emotiva e fantastica, in un amplissimo arco di reazioni individuali, di fronte del resto ad un tessuto di maggior ricchezza quanto a complessità di dettato e di allusioni. Sono immagini che potremmo anche dire epifaniche nei confronti del mondo, benché esse sembrino avere una lunga, profonda durata come accade di certi sensi e pensieri che ci accompagnano, pure modificandosi per tutta la vita.
Questo deriva dal fatto figurativo che le forme e i colori sono sia il riflesso degli oggetti nella mente, sia il riverbero profondo del fuoco di sensi e pensieri che essi hanno alimentato. Così l’oggetto comparente non è la figurazione di un modello, ma il luogo di una saturazione di valori portati a reagire, e a rivelare una temperie emotiva. Allo stesso modo in cui una lirica di Paul Valéry, poeta che imita l’archetipo pascaliano e sillaba Eupalinos, le parole non servono che a marcare il silenzio, in Ramella i colori e le forme sono il rovescio di una non-presenza: quella del mondo che lui fa esistere senza tuttavia rappresentarlo”.
Non è facile afferrare i nessi ermeneutici che corrono tra i vecchi e i nuovi dipinti di Ramella (questi ultimi ora esposti alla Galleria Lo Spazio di Brescia). Se negli uni e negli altri c’è la stessa pienezza di espressione, lo stesso dominio dei mezzi, vistosa è la diversità dei rispettivi significati. Prima era una complessione geometrica di lievi sintagmi astratto-concreti a catturare la luce, ora è un flusso di colore, una visione fenomenica quasi sempre in movimento – la linea di ricerca è, forse, quella che viene da Seurat e passa per il divisionismo italiano.
L’immagine si dispiega per larghe macchie policrome, si distende in un organamento cosmico da cui si sprigiona una luminosità misteriosa e suggestiva, intensamente materia come un pulviscolo che si ordinasse nel flusso per segrete energie che mutano in continuazione la consistenza dello stilema figurativo. L’effetto “tattile” è molto intenso ma è di una naturalezza assai costruita, di un lirismo delicato strutturato su una tecnica sorprendente…

 

PAOLO LEVI
Giorgio Ramella, in catalogo mostra
Galleria Gian Ferrari, Milano 1982

È la tensione esistenziale quella che preme sulla visione estetica di Ramella, in questo suo “periodo” americano, la rielaborazione a distanza di percezioni emozionali sofferte e poi violentemente rimosse. Certo, tutta questa luce, questa distribuzione del colore che non consente né scarti ottici, né sbavature (è la capacità di giocare con tutte le sfumature dello stesso colore a creare la costruzione prospettica dei piani) sono la testimonianza visiva della metamorfosi straziante dell’artista che, volendo narrare le sue proprie “immagini”, accetta la contraddizione fra l’utopia del riprodurre il reale e l’incomunicabilità del linguaggio visuale.

 

GIOVANNI ARPINO
Il giardino come incubo segreto
in “Il Giornale nuovo”, dicembre 1982, Milano

Tenero ma anche angosciante il giardino. Questo un titolo possibile per la mostra di Giorgio Ramella alla Galleria Gian Ferrari. Presentandola, Paolo Levi parla di questi giardini, testimonianti un approfondito “viaggio americano” di Ramella, come di una sfida “tra l’utopia di riprodurre il reale e l’incomunicabilità del linguaggio visuale”. Fedele ad un suo mondo luminoso eppur agghiacciante, palpabile e pur lontano, con la leggerezza dei colori e un incubo segreto, Giorgio Ramella offre una testimonianza concreta della sua “contemporaneità” di pittore: una forza che non dimentica la grazia, una tenerezza che non elimina gli spettri acquattati in così delicati cespugli, giocattoli, alberi, viali, pettinatissimi prati. Ovunque c’è il sole, ma nascosto c’è un assassino.

 

PAOLO FOSSATI
Un pittore dipinge la pittura
Fabbri Editori, Milano, 1985

Se del lungo lavoro di Ramella da fine anni Cinquanta o giù di lì ad oggi si vuol fornire un tratto continuo questo credo sia una destabilizzazione, un senso di instabilità e disquilibrio appena accennato che viene segnalato nelle sue composizioni, come se fosse una frase solo pronunciata, una nota incrinata, col risultato di un’atmosfera sospesa che si fa minacciosa nella pace distribuita entro il quadro. Così, subito alle spalle della serie più recente su cui ci stiamo trattenendo più a lungo, certi ritagli di paesaggio con figure o con oggetti, a scena vuota, contenevano l’intrigo di un avvenimento irreparabile in una sedia vuota o sui bordi di una piscina. E ora, ancora una volta, uno strappo, un crik risuona nell’aria. 
C’è la sensazione, per esempio, che montando le sue scene Ramella cambi velocemente le carte in tavola. Che i paesaggi non vengano dall’album delle memorie visive ma da quadri e disegni, e che tele e tavole da cui li ha tratti non siano quelli, alla lettera, di pertinenza del soggetto che inscena, ma appartengano ad altro luogo e ad altro momento. Non grandi incongruenze ma logiche di montaggio sul filo di una impercettibile distrazione. Il paese gonfio ed impettito alla Valloton ospita, è il caso di dirlo, un pittore che ha tutt’altro stacco ed effusione nel suo modo di porsi all’opera e di calcarsi nel paesaggio. Un relax di artisti stesi in meditazione è collocato in una sezione di paesaggio più imbambolato che stregato, più indurito che esteso, tanto da far pensare agli astratti furori dei Nazareni o ai luoghi di un Friedrich. La descrizione di un motivo, dicevo prima, l’artista sur le motif. E allora attenzione che l’artista sul motivo è fuori e non dentro il quadro, è Ramella non sono i suoi eroi. Lo scivolo dalla composizione e messa in scena allo spettacolo e alla teatralizzazione è velocissimo, con un sottilissimo gusto pompier. E la parola non ha nulla di scandaloso: vuol dire (come suggerisce in un suo esasperato libello Thullier che sostiene esser l’arte moderna tutta pompier, per l’appunto) una condensazione nelle figure di più piani e di più intenzioni, magari troppe, come per suggerire un eccesso di attenzione dietro il quale fa capolino una diversa faccia della medaglia. Ancora Cocteau, per risolver la faccenda con una citazione: “i pompiers non sono là dove crediamo che siano… I pompiers, i nostri, devono essere Rimbaud, Mallarmé, Ducasse, Cézanne, e, magari, lo siamo noi stessi”.

 

MARCO ROSCI
Giorgio Ramella, in catalogo mostra
Galleria Nuova Gissi, Torino 1989

Vent’anni fa, Aldo Passoni, ponendosi di fronte alle “geometrie” e “spettroscopie” di Ramella con la sua consueta e tragicamente perduta intelligenza dei dati concreti dell’operazione artistica, ma anche delle sue sottese tensioni psicologiche ed emozionali, superava ogni facile interpretazione ottico-astrattiva o minimalistica (elementi culturali che pure entravano nel processo di immagine) per sottolineare la fondamentale realtà fenomenica, di “accadimento”, di quell’immagine, attraverso la dialettica cromatica e luministica della “presenza” dell’oggetto e della “sospensione” dell’appoggio spaziale; individuando d’altra parte, nell’interiorità dell’operazione, o meglio ancora nella sua finalità, la tesa volontà dell’autore “a impadronirsi sempre di più del proprio materiale e dei mezzi dell’esperimento”.
Nel successivo quindicennio, dalle idee di mare del 1972 – il punto estremo di astrazione lirica, ben altra cosa dalla non figurazione, come il tardo Malevič insegna – alla sospesa solitudine delle sedie del 1973-75, dalle aperture di finestra/cornice, di spazio/natura su cortili, giardini, prati di casa, in cui talora la “presenza”, per nulla misteriosa e tantomeno allegorica, è quella degli strumenti e materie del dipingere, fino alle ombre lunghe, alle dilatazioni orizzontali, agli smalti perentori dei parchi e delle praterie del New Jersey e del Vermont (in cui la sospensione di tempo storico annulla ogni intervallo fra il primo Balla e Hockney), questa tensione di Ramella si esteriorizza in narrazione di ambiente, di natura, in teatro di memoria.
Ma si tratta in realtà di accumulo, scansione, organizzazione ottica e mentale ed esistenziale di quei materiali e mezzi dell’esperimento. Che è l’esperimento della pittura in quanto tale, ontologicamente autosufficiente: l’atto e il materiale e la materia del dipingere, la pittura come fenomeno e luogo di se stessa; ma nel contempo anche l’uomo pittore che vive, che si riconosce, che si realizza in quel fenomeno e in quel luogo. Il primo approdo, negli spazi e ambienti di natura alla fine del quindicennio, magicamente sospesi fra presenza e assenza proprio per il loro essere nella sostanza di fondo teoremi e perifrasi dell’operazione pittura, è ancora un approdo “storicizzato” (che però, è bene dirlo, non ha nulla a che vedere con citazionismi e rivisitazioni varie): sono i quadri del 1983-85 in cui Un pittore dipinge la pittura, secondo l’intitolazione della piccola monografia che a loro dedica Paolo Fossati. Courbet, Van Gogh, Cézanne. I loro luoghi, i loro tagli d’immagine. Con i colori, gli spazi, le sospensioni, le carpenterie e gli incastri cromatico-scenici di Ramella.
“Immagini di un album in cui è sottolineato il lavoro quotidiano, il mestiere, le si vede sfumare da documento d’epoca in mitologia… È in gioco la pittura, non un semplice travestimento, la pittura in persona, e, quindi, in figura”. L’esperimento, dunque, si amplia e si approfondisce. Ma ha ancora bisogno, prima di reificarsi compiutamente, di appoggi, di rive, di sponde, mentali quanto formali. Lo spazio ambiente natura, lo spazio storia (dell’arte). Non è più “travestimento” attraverso la memoria e la parafrasi del quotidiano magico o anche incubico (gli spettri assassini di Arpino). Ma è ancora mitologia e “figura” di pittura-pittore. Per indulgere alla metafora, è ancora pittura vestita con i panni storici delle radici del secolo, e ancora spazio cromatico in cui il soggetto-occhio oggettivizza la profondità, proietta secondo la convenzione “moderna” su uno schermo organizzato e razionalizzato, usa il diaframma e il tempo di scatto (l’ora, la stagione).
Per citare ancora Fossati, “l’immagine si fa assoluta, l’identificazione, il ruolo, la funzione divengono totali”. Ma si tratta appunto (ancora) di “immagine” nel senso di proiezione cromospaziale, oggettivata, talora storiografata, di quella identificazione di ruolo e di funzione. Certo, in più d’uno di quei quadri, sul cromospazio “prato” esistono solo gli strumenti del dipingere (nei ricorsi profondi dell’esperimento c’è un precedente, credo isolato, il Grande prato del 1979); in altri – ma vi è il limite di uno stupendo gioco illusionistico fra mentale e formale – l’immagine della tela dipinta sul cavalletto è integralmente altra rispetto alle forme e cromie dell’ambiente; in altri ancora, il flusso tonale del colore si espande fino a relativizzare e periferizzare, come dati residuali e d’appoggio mentale-evocativo, gli elementi spaziali e figurali.
Oggi, a quattro anni di distanza, 1987-89, il processo di identificazione è veramente totale, l’esperimento della pittura e i suoi materiali e mezzi (pittore compreso) sono veramente tutt’uno. Il tubetto, il vasetto, la spatola, il raschietto si sono (sono stati) rovesciati/proiettati sul pavimento a tavolato dello studio, hanno sprizzato o sparso tracciati veloci o aree morbide e lente di croma pura e vivido, nel senso letterale del dinamismo organico che autodetermina la propria forma. Non più lume naturale o artificiale (in un caso l’ombra proiettata dal cavalletto in un altro concettualmente-nominalmente presente), non più la tela come finestra spaziale, in quanto il fuoco dell’occhio pittorico è zenitale rispetto al pavimento dello studio. Non negazione di spazio, solo negazione della profondità orizzontale e assolutizzazione di un campo pittorico, che non è però quello dell’astrazione concreta o espressiva (che presuppongono l’una e l’altra o un’astrazione mentale o un impeto emozionale), ma, all’opposto si apparenta con la totale disponibilità angolare del fotogramma. Infatti la magia di questa tappa del lungo processo, della lunga operazione di Ramella consiste nell’identità del massimo di metafora dell’idea di pittura (sontuosa e preziosa metafora perché sontuosa e preziosa è l’idea che della pittura ha Ramella, l’ha già notato Fossati) e del massimo di illusione dipinta, in cui le uniche infrazioni sono le grafie fantasmatiche – e coerentemente metaforiche – di un piede di cavalletto, di un angolo di telaio. E non è che questa raggiunta identità di soggetto/oggetto si ponga al di fuori del flusso storico.
Non si pone fuori né dal flusso lungo del fotogramma, matrice del verismo quanto dell’impressionismo, né da quello breve della “pop art” sul grande versante di Dine o addirittura della concettualità (quelle materie e materiali, quelle tracce e macchie hanno scoperti comportamenti ben al di là del formale). E non si pone al di fuori della storia psicologica ed emozionale dell’autore. Attrice protagonista è la pittura come fenomeno, ma il suo campo scenico è quel pavimento di studio ritmicamente cosparso di impronte di vita, lettere, frammenti di carta. Per chiudere la grande metafora che è anche la grande eterna illusione della finzione pittorica, sono innanzitutto impronte di vita anche gli strati cromatici, la vecchia “pelle” di colore che talora copre, talora lascia affiorare le tavole del pavimento, svariando di quadro in quadro come basso continuo soffuso e vibratile per le dissonanze armoniche delle tracce e delle macchie appena colate.

 

NICO ORENGO
Camminare nella pittura
in “La Stampa”, 14 ottobre 1989, Torino

C’è un libro lontano di Victor Sklovskij, Zoo o lettere non d’amore. È un racconto, fatto alla donna amata, in cui il grande scrittore e formalista russo parla di tutto, vita e letteratura, amore della vita, passione per la letteratura, per non parlare di ciò che vorrebbe: dell’amore. Così la “dichiarazione” diventa ancora più efficace, perché deviata e mascherata. Forse è questa una possibile chiave di lettura per vedere la nuova mostra di Giorgio Ramella, appena inaugurata alla Galleria d’arte Nuova Gissi. Sapere che il pittore sta parlando, dipingendo, qualcosa d’altro.
I quadri alle pareti offrono immagini di lettere, di buste, una scrittura cancellata, interrotta, con parole sbocconcellate che si salvano qua e là: felicità, solitudine, emozione. Ramella ci sta raccontando una storia d’amore forse finita, così ci dice il colore delle buste, il colore grande sulle quali poggiano.
E se invece ci stesse raccontando la storia di un amore dalla fine impossibile, qual è quello con la pittura? I suoi quadri sono, tranne quel “particolare” della busta e di piccoli fiori “infantili”, margheritine da sfogliare, la storia del suo spazio di pittore. Sono le inquadrature, con angolazioni diverse, in diverse stagioni di luce e sentimento, del pavimento sul quale il pittore cammina nella sua pittura. E il pavimento diventa il “soggetto d’amore”, la tela protagonista di una ulteriore ricerca figurativa.
“La materia del dipingere, la pittura come fenomeno e luogo di se stessa”, precisa Marco Rosci nella prefazione al catalogo, ricordando un felice titolo di Fossati, proprio su Ramella, Un pittore dipinge la pittura. 
Non è lontano il tempo in cui il pittore raffigurava il “suo Cézanne” aggirarsi come un irreale santon fra i suoi monti di Provenza: pittore e pittura saldati in una unica figura. Ora il tubetto di colore, la spatola, il raschietto, il barattolo d’acquaragia sono le vere “lettere d’amore” di chi dipinge. Parlare d’amore per raccontare l’amore per la pittura, la passione e la lotta con i propri strumenti di lavoro. Ragionare sul far pittura.
C’è chi l’ha fatto, con gran forza (Giulio Paolini, per esempio) e da tempo, ma adoperando altri mezzi, mettendo in scena strumenti, colori e tela. Ramella no, quel discorso, e Rosci accenna al versante “pop art” di Dine, continua a scandagliarlo facendo risplendere o incupire le tele di colore materico. E soprattutto alzando un canto al vecchio studio del pittore, a quel “grande prato” che è il pavimento, un terreno senza confini, una tela capace di sopportare, più di un foglio di carta o una busta, gli scontri, i tradimenti e gli esperimenti del “cercare pittura”, con il sentimento della finzione.

 

LORENZO MONDO
Due stagioni allo specchio, in catalogo mostra
Palazzo Robellini, Acqui Terme 1990

A distanza di decenni, Ramella continua a riproporci con grande coerenza, insieme alle atmosfere sottilmente stregate, le sue interrogazioni sui rapporti tra sentimenti e pittura, intesa quest’ultima come spazio autonomo, come fonte primaria di significati. Suggerendo un percorso più intricato e magari, alla fine, rovesciato. Con il gesto generoso dell’artista che abbatte ogni franchigia – mon cœur mis à nu – ci invita a spiare, non in un giardino o in una stanza, ma nel suo atelier. E per chi ama calarsi nei segreti dell’espressione artistica l’invito è irresistibile.
Vediamo allora che anche là sono rimasti i segni, ancora caldi, di certi incidenti che coinvolgono la sua e la nostra esistenza, ma ancora di più il suo mestiere. La presenza avvolgente del pavimento lascia intendere che tutto è accaduto – per così dire – sul piano basso dello studio, non è ancora stato fissato sul cavalletto che appare in un angolo. La lettera bruciacchiata, le parole graffite, un fiore appassito non lasciano dubbi che si tratta di qualcosa d’intenso e grave: l’arsura di una passione, un rito degli addii. Lo rivelano, in modo anche più forte, il tubetto schiacciato, il barattolo rovesciato, la striatura di un raschietto. Basta il colore che schizza sul parquet nella sua turgida e non coltivata pienezza a dare il senso di un’atmosfera sospesa, di un “incidente” che interessa prima di tutto la pittura.

 

FRANCESCO TEDESCHI
Due stagioni allo specchio, in catalogo mostra
Palazzo Robellini, Acqui Terme 1990

1960-1963
Diversamente dagli incidenti di Warhol, in cui la rappresentazione fotografica, oggettiva, corrisponde all’attimo dopo, alla quiete mortale e lugubre delle riproduzioni da cronaca nera, senza più possibilità di una lettura interna, quasi tutto fosse inevitabile, quelli di Ramella vanno intuiti, è come se vi fosse la condizione simbolica dell’impatto. Il disegno propone un incontro-scontro fra superfici di colore, spessori tendenti alla tridimensionalità, ad uscire dal quadro per l’agglomerarsi di lamiere e oggetti riportati alla pura pittura. Tutto avviene in quel momento, fino all’ultimo sembra evitabile, il tema finisce per essere un monito, non se ne leggono solo le disperanti constatazioni, ma i significati interiori: si capisce che l’”incidente” non è solo l’evento specifico e nemmeno l’emblema di una lotta fra cultura e civilizzazione, fra uomo e macchina, ma ha applicazioni personali, esistenziali, appunto. L’impatto che distorce ogni cosa avviene nell’oscurità, nella notte della coscienza, nell’io più profondo che, impotente, cerca la forza di resistere, di non soccombere a quelle forze, a quelle lame di luce che squarciano quel fondo di immobilità ormai impossibile.

1988-1990
Ora l’orizzonte si è richiuso, non conduce più all’esterno, verso illimitati confini, tutto si riavvicina, torna a coinvolgere emotivamente, quasi a ribaltarsi sull’uomo, che è l’artista, nell’accezione di Ramella. Tutto è troppo vicino per esser visto con distacco, con obiettività; questi oggetti sono parte di un ambiente familiare, intimo, sono attaccati alla stessa pelle del pittore, sono ancora più vicini, fino a divenire interni. Così lo spazio raffigurato torna ad essere interiore, dello studio si vede una minima porzione, la meno visibile, la meno toccata dall’esperienza dell’esterno, della luce; vi è una drammaticità in queste immagini, che sembra circoscritta a elementi secondari, di poco conto, ma che non è per questo meno tragica, rappresentando un tormento comunque evidente.
Segni di solitudine nell’abbandono degli arnesi del mestiere, segni di vitalità nei gesti di cui portano la fragranza, nelle tracce di colore che tagliano l’uniformità del fondo, come reazione ad un sentimento di chiusura che cerca una via d’uscita.

 

MIRELLA BANDINI
Ramella: quelle due stagioni allo specchio
in “La Stampa”, 4 agosto 1990, Torino

La pittura di Ramella, calibrata e rigorosa, si è da sempre posta come indagine strutturale e dinamica – anche se traslata fin sul filo metafisico – di accadimenti fenomenici nella interrelazione con la luce e con lo spazio. Iniziando dai lavori giovanili esposti appartenenti ai primi anni Sessanta, quasi tutti elaborati sul tema degli Incidenti, e che prendono spunto da visioni di scontri automobilistici, il pittore ci restituisce incastri di lamiere che, pur appartenendo alla cultura della contemporanea pop art attenta alla realtà urbana, sono visualizzati come bande cromatiche ricche di impasti materici e di incidenze luminose.
Pennellata grumosa
Anziché indulgere alla fredda oggettualità pop, Ramella ha preferito ricorrere, con grande rigore, al piacere della pennellata grumosa, alla rifrazione luminosa, le cui ascendenze sono da ricercarsi nello spessore della poetica dell’Informale europeo. Pittura che si lega intensamente con il dinamismo dell’accadimento, dell’evento ineluttabile che vuole rappresentare, e che avviene in uno spazio rarefatto e siderale, ove le “lamiere” si accartocciano senza gravità, in accordo monocromatico con esso, mediante tonalità grigie e ocra.
Dal necessario confronto con le opere recenti in mostra, si rileva una perfetta continuità stilistica dell’artista, sottolineata in catalogo da Mondo e da Tedeschi. Dalla tematica della dura realtà urbana, Ramella si concentra su quella dell’interno del suo atelier, visualizzato mediante un taglio dall’alto che ne focalizza ossessivamente il pavimento: su questo palcoscenico privato di lavoro il pittore ci rappresenta segnali o tracce di accadimenti improvvisi come rovesciamenti di colori, spargimenti di utensili di lavoro e frammenti di memoria, come fogli di lettere sparsi.
Sono traiettorie incrociate in uno spazio incombente e afono, che ricorda quello degli Incidenti del periodo giovanile, come la pittura, a tocchi rapidi, densa di impasti sapienti e soprattutto di accensioni luminose.
Una luce protagonista
La luce nella pittura di Ramella è infatti una componente molto importante, che l’artista ha messo a punto nel suo lungo percorso, attraverso una serrata analisi ottica della visione e del colore.
Il suo interesse per la luce-colore è passato attraverso varie fasi: dagli Spettroscopi del 1967-68, a vibrazioni luminose irradianti; alla serie del Mare del 1970-71, accentrata su un’unità cromatica intensa e balenante, fino alla confluenza, nei primi anni Ottanta, nel gusto narrativo, e di citazione, della pittura en plein air.
Un altro carattere costante della sua opera, che vediamo emergere da queste due stagioni allo specchio, è l’inquietante e sottile aura metafisica che suggella sempre la dimensione della sua pittura. L’attesa dell’evento, l’interrogazione, la pausa, l’evidenza dell’ambiguità, l’enigma della metafora, circolano dentro le scansioni rigorose e meditate dei suoi quadri: tutti elementi che ritroviamo persistere nella pittura torinese, attraverso un arco che va da Casorati a Cremona a Paolini.

 

FLAMINIO GUALDONI
Ramella, opere ultime, in catalogo mostra
Palazzo del Comune, Spoleto 1993

Non più un soggetto, ora, fa da innesco, ma un pretesto. Che è un’allucinazione metropolitana fatta di lucori elettrici e claustrofobie, una sorta di trasognamento, di stordimento ossessivo del vedere, che si fa coagulo intuìto, e da esso rimonta, per crescenze straniate e tutte interne alla vocazione del colore e del sismografico tracciato grafico, sino a conoscersi in visione altra, pittorica tutta.
“Non negazione di spazio, solo negazione della profondità orizzontale e assolutizzazione di un campo pittorico”: così Rosci, a indicare come nell’opera penultima, e transitando all’attuale, i segni strutturali incidano una loro propria probabilità spaziale, pur riottosi a ogni referenza.
Nelle tele ultime, il segno che s’incide duro e determinato, scavando la tessitura delle paste pittoriche, dichiara lontane ma plausibili poggiature d’una spaziosità d’ascendenza prospettica: dichiara, ma solo per accelerare le proprie movenze, i propri corsi, sino a dar luogo ad un’architettura collidente di linee-forza, ai corsi di un tracciare in cui le vocazioni struttive trascolorano in un energetismo nevrotico, immemore d’orizzonte, cautelante appena l’evidenza sensorialmente frenetica delle temperature del colore.
Il colore, nell’allucinazione sottile del gesto che lo stende, è protagonista ora assoluto, nella sua fisicità forte, prorompente (è una sorta di dechirichiana materia tinta, per turgore, ma come esorcizzata dall’autorevolezza scabra dell’atto pittorico), nell’iterazione contaminata, che si vorrebbe fastosa ma si dà disagiata, d’una tramatura elementare e intensiva.
Nero e giallo, nero e giallo e bianco, nero e verde, e rosso, e un rosa dalla straniata carnalità: Ramella identifica una dominante cromatica di forte implicazione emotiva – né sono da trascurare riverberi simbolici, e citazioni non ovvie di quella storia pittorica, storia del dipingere, che da tempo è materia prima del suo ricercare – e ne fa la protagonista qualitativa dell’immagine tutta. Per contraddirla, per sottoporla ad assedii e imboscate gestuali che si attuano in incidenti timbrici clangorosi, i quali inducono viraggi, forzature d’innaturalezza, scacchi di lettura, quasi a porre in mora definitiva ogni residuo naturalistico, e riaffermare, e riaffermarsi, con forza la naturalezza propria, artificiosissima e fervida, della pittura per se stessa.

 

MARCO ROSCI
Che incubo la città dipinta
in “La Stampa”, 1 novembre 1993, Torino

Il modulo di immagine, nota ribattuta in una serie allucinata e allucinante di variazioni cromatiche in cui l’osservatore è imprigionato senza vie di fuga, è dato dall’estrema sintesi di un angolo disumano della stazione Coney Island della metropolitana di New York, uno di quelli che compaiono come nuda minaccia lungo il percorso dei Guerrieri della notte: spazio compresso, quasi cromaticamente spremuto entro le due dimensioni della tela; le coordinate spaziali sono minimalizzate, in verticale e diagonale di profondità, da un segno guizzante – quasi lampo, scarica elettrica – nero, giallo, rosso o incredibilmente verde smeraldo.
Quelle notti nere e verdi
Nero giallo rosso, quasi sempre in forma binata di fondo e di dominante in una struttura a striature verticali, sono infatti le tonalità di gran lunga prevalenti, in un tessuto di spazio-pittura che rimbalza, d’opera in opera, violento, quasi implacabile e nello stesso tempo cromaticamente lussurioso: qualche minima pausa, rispetto alle luci lancinanti su quei piani striati e tesissimi, è solo offerta dalle Notti intessute di nero e verde smeraldo.
Questi spazi di pura sostanza cromatica, pur nella loro memoria di un’esperienza reale del pittore, in forma di incubo e ossessione, non tollerano nessuna traccia, nessun segno, nemmeno un’ombra o graffito di presenza vitale (ma il pittore è già proseguito oltre Coney Island, ha già riaperto in questi giorni un dibattito con il magico e l’antropologico).
E tuttavia, guardando ben a fondo, queste solitudini hanno azzerato l’umano, ma non rifiutano per nulla la storia; quanto meno, la storia dell’arte. Un filo lunghissimo, sottilissimo ma tenace rilega questi ipogei di New York al Battistero fiorentino quale l’aveva tracciato sulla sua “tavoletta” il Brunelleschi, forma nello spazio nuda e assoluta; e il giallo citrino striato sulla base nera affiorante è pur quello di Van Gogh; e la gamma dura ed elementare della tavolozza di Ramella ha un tasso e un concentramento più denso e concreto di cattiveria anche rispetto a quella dei neoespressionisti “selvaggi” tedeschi.

 

GIOVANNI ROMANO
In studio da Giorgio Ramella, in catalogo mostra Venti studi per un tema classico
Convento di San Bernardino, Ivrea 1994

Lo studio di Ramella pullula di disegni preparatori e di modelletti per quadri futuri, di solito su frammenti minimi di carta, la prima che è capitata tra le mani; si presentano tutti come strappati senza troppa cura da fogli più grandi e messi da parte alla svelta per l’occasione opportuna: alle loro spalle è possibile un’ecatombe di prove analoghe, annientate dal giudizio critico dell’autore. Me ne rammarico, di fronte alla compiuta eleganza dei foglietti risparmiati, ma devo ammettere che gli artisti, come i poeti, hanno diritto a distruggere i loro scartafacci e a difendersi, in questo modo, dall’intrusione dei critici che amano l’intimità del lavoro mentale, le fasi delicate di incertezza tra tentativi non conciliabili, la scelta in corso tra itinerari di diversa inclinazione.
Gli studi per la Crocefissione sono stati molto più di venti, ma la scelta resa necessaria dalla mostra ha costretto Ramella a una severa autocritica; severa e crudele, dal momento che, separando i buoni dai meno buoni, ripeteva a mezza voce “questo è da strappare… da buttare… da eliminare”. Alle mie rimostranze non ha dato alcun peso, per la troppa abitudine a censurare il non necessario, come elemento di distrazione; il lavoro di studio puntava a un quadro solo, che difficilmente avrebbe consentito repliche (per le sue misure monumentali), pertanto la combinazione dei segni che andava ordinandosi nella mente del pittore non sopportava alternative lasciate in sospeso. Solo alla fine Ramella si è arreso a una diversa possibilità, che non interferiva più di tanto con il quadro in gestazione: “mi piacerebbe fare una Crocefissione tutta nera”, e tra i modelli in mostra c’è anche l’embrione di questo quadro, da immaginare sontuoso e terribile.
Esposto in San Bernardino d’Ivrea il grande dipinto indurrà facilmente a un confronto con la Crocefissione di Spanzotti: un confronto da temere, e in un primo momento Ramella aveva pensato ad una composizione per largo, così da evitare un accostamento automatico. Ma ha vinto l’ipotesi in verticale, perché altrimenti rischiava di allentarsi il nodo al centro, su cui puntare il fuoco compositivo. A difendere il quadro da un paragone improprio con il capolavoro spanzottiano interviene la evocazione indiretta del sacrificio del Golgota, con la riduzione a pochi tratti allusivi della complessa trama di croce, suppliziati, dolenti: un fuoco improvviso ha carbonizzato l’evento, riducendolo a un sinistro traliccio in equilibrio precario. Dentro questa ineludibile opzione tragica affondano le radici estreme anche dell’altra possibile Crocefissione in nero, nel pieno della notte, con al centro solo un segno di cenere bianca che Ramella, parlandone, definisce più volte come “cattivo”: un aggettivo un po’ vago per non destare sospetti di privata reticenza. 
Chi conosce le ultime stagioni pittoriche di Giorgio Ramella e ricorda il felice canto cromatico di dipinti non lontani (penso agli anni 1987-1988) avrà qualche difficoltà a riconoscerne la personalità nello stridore abbacinante della Crocefissione ora in mostra: una notte di catrame grava su una cascata di luce acida e irreale, solcata da cicatrici e da volanti traiettorie di fuochi fatui. L’ostinata sottrazione di ogni riconoscibile realtà si accompagna a una messa in scena da set cinematografico, con luci virate su uno spettro stridulo: Ramella ha allestito l’angolo più desolato di una landa post-nucleare. “Non voglio più fare una pittura piacevole”, confessa ripudiando molti lavori del passato, ma sulle pareti del suo studio ha appeso alcuni bellissimi quadri dei primi anni Sessanta, in sintonia con il suo tetro umore attuale. 
Di questi quadri, esposti alla Bussola nel 1963, con altri di giovani maestri torinesi (Ruggeri, Saroni, Soffiantino e Gastini), ho un memoria molto viva, anzi confesso che sono gli unici di quella mostra a ricordare come un’autentica rivelazione (credo interferisse anche la parzialità per un pittore in assoluto mio coetaneo). Ma la vecchia impressione non è velata di pessimismo: oggi, come allora, apprezzo l’accordo cromatico grave e contenuto, la stesura tersa, senza residui né ingorghi, l’omaggio discreto a Gorky e a De Kooning (i padri nobili, con Burri, della buona pittura torinese di quegli anni), tenuti sotto vigile controllo eliminando l’aspetto antropomorfo degli incubi americani. Il concetto di controllo non torna a caso parlando di Ramella, pittore di quadri cautamente predisposti, realizzati con una tecnica che unisce la sperimentazione degli effetti al dominio del gesto esecutivo, anche nei momenti apparentemente più liberi. Ho seguito da vicino, alle spalle del pittore l’esecuzione dell’opera destinata ad Ivrea; la fatica metodica e sempre reinventata di quei lunghi tracciati a scavo, ora su un piccolo trabatello, ora da terra, fino ad inginocchiarsi. Per frenare la mano, di natura predisposta a una pittura seducente, Ramella ha lavorato schiacciando direttamente il tubetto di colore sulla tela, con modi di artigiano coscienzioso, e a fine giornata confessava sorridendo “la mano fa male”, come soddisfatto di una posizione autoimpostasi. Ho assistito anche alle prove di colore (nero, giallo limone, giallo cadmio, poco bianco…) ed ho riconosciuto l’origine della luce innaturale in certi quadri americani di Ramella, con corridoi di metropolitana disertati dal pubblico. La buona tecnica ha retto vittoriosamente anche nelle dimensioni fuori scala dal dipinto concluso (dimensioni poco consuete da noi) e ne è nata la scabra e forte tessitura di base, necessaria a un quadro imponente. È un peccato che non sia stata riprodotta in catalogo la documentazione fotografica delle varie fasi attraversate dal dipinto, perché avrebbe aiutato a capirne meglio la miracolosa alchimia di applicazione maniacale e di invenzione a caldo.
Il modello canonico della Crocefissione, nonostante la riduzione allusiva di Ramella, ha visibilmente ostacolato l’affiorare nell’opera di un riconoscibile rinvio al linguaggio dei graffiti preistorici che, da ultimo, ha conquistato il nostro pittore. Il salto dalla micronarrazione sincopata dei modelli primitivi all’abnorme intreccio del dipinto ultimo ha denunziato alcuni limiti congeniti della arcaica scrittura per immagini: la vocazione narrativa da cartone animato, la apparente semplicità delle composizioni, che Ramella scompiglia ritagliando particolari e irrobustendo fino a scardinarli aste ed occhielli figurati. Niente di quel ticchettio nervoso si riconosce nella solenne astrazione ora davanti ai nostri occhi, dominata da un comporre grandioso (con centro ottico privilegiato), dal contrasto dinamico tra “immagine” protagonista e omogenea tessitura di fondo, dalla generosità e dalla fermezza del gesto pittorico, dal forte sentimento psicologico: voglio dire dalle qualità più alte e commoventi della ormai lunga carriera di Ramella pittore di superbo talento.

 

PAOLO LEVI
I misteri pittorici di Ramella
in “La Repubblica”, 1994, Torino

Da tempo Giorgio Ramella è artista che riesce a stupire chi si occupa del suo lavoro pittorico. È sufficiente, in questi giorni, varcare la soglia del Convento di San Bernardino d’Ivrea, dove è allestita una sua bella personale, per rendersi conto della sua quasi ossessiva variabilità espressiva. Artista dal carattere umorale, le sue “mutazioni” non sono di origine psicologica, ma sorgono da una coscienza creativa, da un innamoramento per ciò che egli va a scoprire, o, meglio, che nasce irruento dal suo immaginifico. Ramella, infatti, terminato un determinato ciclo tematico, ne porta in luce un altro, in una suadente e nuova chiave formale.
Ad Ivrea, una macro Crocefissione su tela e gli studi collaterali su carta di datazione recente – l’esposizione è organizzata dal Gruppo Sportivo Ricreativo Olivetti e benedetta dalla Provincia di Torino – sono lavori meditati, dalla vibrante materia pittorica. Un messaggio misterico che, proprio per la sua struggente allusività, pare aprirsi verso l’alto ed uscire dalla immanenza, dall’apparenza dialogante di linee e colori. L’olio su tela 290x400 centimetri gioca sulla simbologia del colore giallo (segnale di luce) e del nero (segnale di morte). È una tela grandiosa, ma nel contempo umile, con i suoi minimi dati formali, su cui il colore pare steso a tubetto spremuto, con decisione lineare, in verticale. In alcuni studi su carta l’antico simbolo della croce sembra rivissuto dall’artista in chiave primitiva, come un graffito sortito in tempi anteriori al Cristo stesso. Sono croci-Cristo, che paiono ritirarsi, rinchiudersi dietro il fondo colore, altre volte emergono in una sofferenza gridata: sono le pagine del diario dalla bella scrittura pittorica di un artista non religioso, ma forte di una religiosità che egli stesso non sa forse di avere.

 

TIZIANA CONTI
Giorgio Ramella. Integrazioni problematiche
in “Titolo”, 1996, Milano

Nel saggio L’arte come fatto semiologico Jan Mukarovsky identifica la proprietà specifica dell’arte con i rapporti dinamici tra le sue diverse componenti. Il momento fondante dell’equilibrio interno dell’opera è determinato dalla violazione della norma, che intenzionalmente ne muta lo stato, generando trasformazioni incessanti.
Mi pare che il concetto di violazione sia idoneo ad interpretare la pittura di Giorgio Ramella nella quale segno, gesto e colore si fondono processualmente in una dimensione generativa. L’artista, violando continuamente la neutralità, l’anonimità, l’uniformità, rende l’opera aggressiva e penetrante, così da destare impressioni “dalla” realtà.
È ancora Mukarovsky a suggerire che il lavoro di Ramella vive della tensione insolubile tra semioticità e realità, intenzionalità e inintenzionalità; per questo assume un carattere epifanico che pone in atto scenari sempre nuovi. Pittura lucida e consapevole, si carica di atmosfere che attingono al patrimonio della coscienza e della memoria e si traslano in “qualità” di luce e di colore. Nell’artista è insita la capacità di appropriarsi dello spazio pittorico per dispiegarne ogni possibile impulso, ogni energia sottesa. L’equilibrio si trova solo procedendo attraverso integrazioni problematiche, costruendo e decostruendo la superficie pittorica.
Segno, materia e colore trovano nella tela un’occasione attuale, diventando attori di armonie dissimmetriche. Il segno è aggressivo, protervo, attraversa la spazialità evocando disritmie e nevrosi sotterranee. La materia si sgrana in turgori, in rivoli di impronte. I cromatismi sono densi, palpitanti; gialli accesi, rossi sanguigni, neri cupi, dolorosi, assoluti nella loro notturnità, nella quale il segno esplode accecante, come un presagio.
Ramella scava nella mobilità del reale, per rapire umori nascosti. Passa con naturalezza dal grande al piccolo formato. Dialoga con la pittura in un rapporto di fisicità che si realizza attraverso un linguaggio autentico, mai ridondante o dispersivo. Il suo legame con la pittura integra emozione, concetto e sensuosità, tanto da superare gli illusionismi e gli schematismi e da scoprire che, come l’uomo, anche la pittura è vulnerabile.
Bisogna entrare nel suo corpo, istintivamente, e respirare con essa, consapevolmente.

 

GIANFRANCO BRUNO
Sur le versant de la peinture, in catalogo mostra
Museo Archeologico di Aosta, Aosta 1998

Scrivendo dell’ultima stagione di Ramella, nel 1993, Flaminio Gualdoni diceva “ora conta per lui solo l’esprimere: dunque un respirare e avvertirsi nel colore, un assestarsi netto e incoercibile delle tensioni lineari, cosciente della sua propria totale autonomia linguistica e di senso. Non più Ramella dipinge la pittura, ora, ma da quella fondativa certezza muove per farla accadere, in piena identità di fluenza e di modi, in piena coesione con i propri rovelli affettivi, con la propria ossessione lucida di visione”. Mi sembra che in modo esemplare tali parole delineino il senso generale dell’opera recente dell’artista che, passato attraverso diverse fasi, sempre distinte da una sua assoluta padronanza del magistero pittorico, approda infine ad una dimensione “drammatica”, nel senso che il ritorno ad un essenziale rapporto tra l’artista e la superficie visiva in cui la sua creazione si manifesta, presenta una riduzione di distanza dove solo possono accadere fatti in cui psichicità e fisicità appaiono del pari totalmente coinvolte. Il procedimento stesso che Ramella attua manifesta il dispiegarsi di una partecipazione assoluta alla crescita dell’opera, in una abolizione di distanza che è specchio di un essere nel quadro e contraddice, o almeno, supera, le fasi precedenti, non solo quella del “dipingere la pittura”, ma anche quelle del calibrato tentare un ordine compositivo come metafora del sentimento poetico del mondo. “Non voglio più fare una pittura piacevole” – dice Ramella – e in questo nega non il precedente dipanarsi della sua esperienza intesa a distaccare un oggetto-quadro in cui si inveri la metafora del mondo, ma annuncia l’avvento di un’ipotesi creativa in cui tutto si riavvicina, torna a coinvolgere direttamente l’artista. 
Già i dipinti della fine degli anni Ottanta, con il ribaltamento di quei fondi addensati di materia pittorica su cui si accampavano i frammenti della quotidiana esperienza, anticipavano questa attuale pittura, mantenendo però una riconoscibilità dell’oggetto, in qualche modo stabilendo una simbologia del quotidiano, che appare oggi completamente scomparsa. Nascono invece, i quadri recenti, a partire almeno dalle “metropolitane”, da una ossessione di essere nell’opera, interamente e senza distacco, riconoscendosi nella percorrenza del segno-colore-materia e negli anfratti desueti di uno spazio che opera svolte, direzioni, arresti e si blocca in ogni caso come di fronte ad un muro. Nascono segni macroscopici, tangenti e direzioni che tracciano percorsi sull’inarrestabile opposizione che lo spazio della tessitura pittorica oppone, trascorrente nella continuità di un gesto duro, che avvicina il piano a testimoniare l’eliminazione totale di una distanza tra l’opera e il suo artefice. Esemplare in questo senso è la grande Crocefissione, dove il gesto è tutt’uno con la forma, stilizzata e “romanica” per l’accento durissimo del suo comporsi, con un rimando imprescindibile, qui ostacolato – come dice Romano – dal modello canonico del soggetto, al linguaggio dei graffiti preistorici. I quali sono invece presenti, come motivo conduttore dell’intera opera recente, nei quadri di dopo, esaltazioni macroscopiche del figurare primitivo: dove lo spazio è ancora quello indifferenziato, e “vicino”, della parete su cui poggia la mano e aderisce l’interezza corporea di chi scrive storia per frammenti significanti un’azione ripercorsa con l’empito stesso con cui la si vive. Dipinti di passione e di dramma, perentori per l’essenzialità della materia e del segno, più incisi nella pietra dura che dipinti, sebbene così magistrale sia la tecnica da incantare per la sottigliezza dei trapassi di tono e per lo squillare degli incastri dei piani colorati. Mi sembra che Ramella abbia recuperato, con un percorso che trova nell’imprevedibilità la sua coerenza, l’accento drammatico degli Incidenti dei primi anni Sessanta, se persino certi stilemi, le barre di colore esprimenti gli incastri delle forme e dei piani, tornano a riproporsi nel dramma pittorico attuale, ma fatti gesto e tradotti nella perentorietà del segnale. Non ad intessere un racconto, ma come allarmi gettati in uno spazio trascorrente secondo un moto univoco in verticale, bloccati a mezzo tra precarietà e apparizione. Una pittura di inquietante attualità, che non a caso ha i suoi antecedenti nelle ossessive serie delle visioni americane dei primi anni Novanta.

 

OLGA GAMBARI
Giorgio Ramella, disegni e dipinti, in catalogo mostra
Castello di Barolo, Barolo 1999

Nell’opera di Giorgio Ramella si rivela e confluisce la vita e l’ansia di vivere come in un diario visivo autobiografico, che per stagioni segue la storia di un uomo e la sua natura inquieta e insoddisfatta, sempre alla ricerca dell’altro e di strade diverse.
Dagli anni Sessanta, dopo l’Accademia Albertina di Belle Arti a Torino, Ramella imbocca un percorso ininterrotto di ricerca artistica fatto di molti momenti diversi, addirittura con svolte precise dal figurativo all’astratto e viceversa. Temi, iconografie e linguaggi si inanellano, rincorrono e contrastano così come sulle tracce della vita e dei suoi colori, tra ombre e luci, vette e abissi.
Un diagramma pittorico instabile che però si è sempre mosso secondo alcune linee forti e comuni, che rendono il variegato corpus di opere di Giorgio Ramella un solido in rotazione dalle molte sfaccettature, ma dall’unico nucleo energetico e pulsante. A partire dalla matrice fondamentale di ispirazione che è sempre stata la realtà visiva del mondo nelle sue immagini vitali e veloci come nelle riflessioni indotte. Una realtà in cui l’artista è immerso e che gli scorre intorno e attraverso, e di cui alcune tracce gli rimangono impigliate dentro, segnate come su di una carta assorbente.
Ramella ha sentito spesso la tentazione dell’astratto, ma nel senso del gioco, come inganno formale teso agli occhi esterni dello spettatore. Perché la partenza e l’aggancio, il richiamo esplicito rimane comunque il dato reale, magari sezionato, rielaborato o colto nei suoi dettagli. Nelle sue scelte astratte l’Artista pospone e occulta al riconoscimento immediato il piano figurativo esplicito, mandando avanti un’apparenza non-figurativa, dietro cui cela se stesso e la dimensione poetica. Sono momenti di distacco dal mondo, di introflessione ragionata dietro abbagli a tratti evanescenti, dai codici comunicativi più criptici e enigmatici, come il guscio di un nocciolo inciso però dall’interno da forme incandescenti in ebollizione. Una sorta di cartina geografica dell’anima.
Dicevamo prima la realtà come la vita per fonte ispirativa, la più diretta e viscerale, che sia stata per l’Artista attraverso gli anni quella urbana delle Città con i loro squarci, come la serie Vetrine, o le visioni allucinatorie di metropolitane americane in Coney Island, quella tecnologica degli ammassi di lamiere d’automobili negli Incidenti, oppure la natura selvaggia e acquea con il gabbiano tra cielo e acqua nella serie dei Mari, una natura più intima e domestica nei giardini privati, di case con sguardi su Sedie abbandonate con misteriosi fagotti sopra, Pavimenti pieni di oggetti simbolici, come lettere e fiori, e per ultima quella antica e primitiva dei graffiti rupestri aborigeni.
L’uomo è sempre in bilico tra assenza e presenza, soprattutto come pellicola sensibile e organica che vede, sente e si emoziona, lasciando anche tracce di sé, oggetti appena abbandonati o che stanno per essere raccolti. Sensazioni di pieno e di vuoto che a volte astraggono il disagio e la solitudine dell’essere vivente. Perché costante è l’idea della solitudine dell’uomo e dell’illogicità della vita, con il suo carico di enigmi e di sofferenza, spesso di incomunicabilità che avvolge e separa nella claustrofobia inumana e allucinatoria del mondo contemporaneo, che si riflette nello spazio dell’anima.
Giorgio Ramella capace di bella pittura, pittore classico e legato alla tradizione, a volte anche manierista, ma sempre alla ricerca d’altro con esperimenti dagli opposti esiti formali, nell’ultima stagione iniziata un decennio fa ha decisamente lasciato tutto ciò alle spalle, perché non gli basta più e vuole qualcosa di diverso. Soggetto e tecnica abbandonano la bella mano, la stesura precisa, l’effetto figurativo piacevole per esplodere in energia e rabbia astratta formalmente quanto violentemente libera, attingendo solo alla vita come eruzione energetica da tradurre e trasmettere come contrasto, stridore e aggressività di forme e colori. Gestualità forte e emozionale per un colore che si fa spesso e materico. Ma si tratta in effetti di un figurativo astratto, perché ora Ramella coglie dalla realtà attorno solo alcuni dettagli pittoricamente forti, zooma su certe porzioni di ciò che vede, scegliendone particolari simbolici e evocatori. Con l’effetto però di una pittura astratta, perché isola parti dal contesto, decontestualizzandole anche figurativamente sulla tela. L’isolamento di un particolare in un primissimo piano da microscopio ritaglia dalla realtà visiva dei microcosmi di linee e colori, come tanti piccoli sguardi di un occhio interiore attento e curioso, capace di estrarre istanti e punti da flusso generale.
Questo procedimento Ramella l’ha adottato a partire dai lavori ispirati alle metropolitane americane, dopo un viaggio negli Stati Uniti in cui questi luoghi tipici delle metropoli contemporanee, simbolo per eccellenza del vuoto metafisico e dell’incomunicabilità contemporanea, lo folgorano nella loro forza pittorica negativa. Angoli, scorci, prospettive, luci lontane e ombre claustrofobiche, spazi enormi e angusti, queste moderne tane dell’uomo introducono in un incubo d’ansia allucinatoria e inumana, dove la gente diventa forma spersonalizzata, non-presenza senza identità, esistente solo nel momento anonimo dell’uso e del passaggio. Come l’allucinante giallo della sporca e fatiscente stazione newyorchese di Coney Island, da cui trae una serie di oltre trenta dipinti, così come di Subway. Un nome solo per decine di sguardi e relative sensazioni e emozioni, tutte raggelate nel cuore e incise a fuoco nella memoria. In una ripetizione ossessiva di attimi, emozioni sincopate, proliferazioni alienanti di istanti allungati e fermati oltre il limite, in attimi narrativo-pittorici stridenti e acidi, scabri come scosse.
Poi cinque anni fa le rocce su cui uomini antichi hanno inciso e dipinto la loro cultura e il loro mondo, con segni figurativi e astratti simbolici e criptati, evocatori e poetici diventano l’universo iconografico in cui Giorgio Ramella decide di muoversi, elaborando dai segni millenari degli aborigeni australiani le sue tavole pittoriche.
Scegliere segni e concetti primitivi, essenziali per parlare – come in un parallelo simbolico – dell’anima più profonda e impulsiva, quella su cui si depositano le tracce più intime e oscure della nostra vita. Fisica ma senza parole, istintiva nella sua reazione, direttamente da uno spazio oscuro giù nello stomaco. I recenti segni di Ramella arrivano da un lontano passato dell’uomo storico, così come dall’interiorità più viscerale dell’artista, probabilmente come automatismo inconscio. Echi e scosse che ritrovano in composizioni e segni grafici la loro traduzione, canali linguistici simbolici attraverso cui dar voce e rappresentazione. Lavori che visualizzano l’inconscio, dando corpo e visibilità a un magma interno, come un lavoro di catarsi terapeutica.
La resa pittorica è spessa e materica, ma questo già da anni, abbandonando il pennello prima per la spatola e poi per il colore direttamente spremuto sulla tela dal tubetto in volumetriche strisciate parallele e verticali, scendendo manualmente col tubo sulla tela, e poi inciso e segnato con un grafismo chirurgico e di rottura fatto di tagli e ferite, pittoricamente violento. Campiture cromatiche ripartite spazialmente in paesaggi dell’anima.
Quei graffiti primitivi aborigeni celebrano la forza e il vigore del gesto, che si collega alla pasta pittorica spessa, che sgorga dal tubo come lava cromatica, prendendo un volume tridimensionale che invade lo spazio fuoriuscendo dal quadro.
Colori di getto, di folgorante energia e potenza, carnali nella plasticità del rilievo a olio, quanto ambigui nella loro dimensione simbolica di codice linguistico segreto. Prima solo il giallo e il nero come forte contrasto cromatico in opposizione; poi sono arrivati il rosso, l’arancio, il grigio e il viola, usati però sempre in maniera pura.
E poi la luce, altro elemento compositivo fondamentale per l’Artista, a cui ha sempre rivolto un’attenzione costante e fedele, capace con i suoi giochi e effetti di dare il tono e l’atmosfera in tutti i suoi lavori, potente e magica, che sia fredda e metafisica, abbacinata e misteriosa, dolce e materna, lontana e sorda, oppure acida e tagliente.
Ogni quadro è come un rito, un processo zen che a ogni stesura e a ogni strato successivo crea uno scavo interiore lento ma preciso verso il cuore, dalla superficie al nucleo attraverso un percorso di introflessione orientale. Così i lavori che da un primo impatto esteticamente forte e d’effetto lasciano poi trasparire altri livelli sotterranei, come una scala da scendere.
Però dietro l’impetuosità del segno violento e destabilizzante, la texture si rivela ragionata e studiata, soprattutto come campitura geometrica e spaziale, con una razionalità essenziale che informa la strutturazione di ogni composizione e la distribuzione degli elementi. D’altronde, andando un po’ indietro, già nei Pavimenti fine anni Ottanta iniziavano a delinearsi visivamente chiare linee e traiettorie geometriche, come scie di colore lasciate da spatole e tubetti, macchie che dilagavano e semplici strisciate a terra, e ancora prima si rintraccia l’esigenza di una suddivisione spaziale in tutti i suoi periodi. Ora questa ricerca attenta e preziosa affida il proprio messaggio viscerale e il progetto comunicativo a un alfabeto di segni, apparentemente casuali ma tipici di una grammatica pittorica personale e raffinata. Che con il tempo si sta rarefacendo nell’abbandonare una fitta e più confusa rete di graffiti per catalizzarsi su pochi segni aspri, quasi sagome-icone ritagliate che si staccano e delineano nette sul rilievo materico del fondo, ottenuto per sovrapposizione di strati pittorici.
E il suo messaggio comunica in un’atmosfera ora asettica e fredda, ora violenta e impulsiva, tonale e timbrica, con un grafismo sintetico che sottolinea stridori taglienti nei suoi interventi chirurgici sulla pasta cromatica depositata come pelle sulla tela, e con colori acidi dall’aggressività manifesta.
Opere dalla comunicazione linguistica essenziale e scabra, con misteriosi e arcani segni di potenziale origine cabalistica o orientale, la cui preziosità va ricercata nell’opulenza materica e cromatica del colore a olio. E l’atmosfera risulta come sospesa nello spazio cristallizzato di un incantesimo, filtrata da uno specchio che evoca evanescenti mondi arcani, tra il passato, il presente e la dimensione del sogno di un uomo contemporaneo non diverso da quello antico e primitivo delle terre australi aborigene. Titoli dove compaiono i termini di guerriero, archi, frecce, canti e che instaurano un parallelo tra passato e presente dell’uomo, per raccontare con grafismi primordiali un’attualità biografica.
Al Castello di Barolo Giorgio Ramella presenta un gruppo di quindici tele di grande formato e altre invece più piccole, insieme a disegni frutto di un’espressione più recente, esposti per la prima volta in Italia, lavori eseguiti su carta con materiali diversi come carboncino, matite e grafite in contrasto con il colore acrilico, che sembrano la radiografia più essenziale delle opere ad olio, quasi viste in trasparenza.
Poi un gruppo di bozzetti preparatori, che costituiscono la prima base progettuale delle sue opere, pagine di piccoli studi a matita, tracciati in fretta per bloccare l’idea da sviluppare poi, ma compiuti e con una propria corposità strutturale, come raffinate miniature.

 

MARCO ROSCI
Il mondo come caverna dell’aborigeno metropolitano, in catalogo mostra
Galleria Maze, Torino 1999

Ho prestato a Ramella un vecchio disco dell’Art Ensemble of Chicago del 1980, Urban Bushmen, sontuosa disarmonia della città tribale, dal Bronx a Coney Island dei Guerrieri della notte di Walter Hill, puntualmente del 1979: la notte come caverna violentata dai fari, la luce inghiottita dalle viscere della metropolitana. In quel tempo la tela e la tavolozza di Ramella riflettevano il verde smeraldo dei parchi e delle praterie del New Jersey e del Vermont, poi si accendevano del sole di Van Gogh e di Cézanne; solo un decennio dopo un pittore sarebbe sceso nella metropolitana del Bronx per ritagliare e appiattire a grandangolo spazi cementati primari, flagellati da piogge di luce artificiale “acida” nell’accezione beat, progressivamente mutanti, in rigorosa continuità e persistenza di struttura formale e cromatica, nelle caverne graffite e incise dei contemporanei regrediti alla cultura primitiva e tribale.
Proprio considerando lungo gli anni Novanta il processo e i frutti, cromaticamente ai limiti dello psichedelico, di questa metamorfosi di Ramella (e in Ramella) della metropolitana, già secolare simbolo e incubo della metropoli della civiltà industriale, nella caverna dei nuovi aborigeni postmoderni, di cui è stata vittima sacrificale Francesca Alinovi, mi sono sempre riecheggiate all’orecchio le sofisticatissime cacofonie enarmoniche afroamericane dell’Art Ensemble. E si sono riverberati all’occhio gli incubi cavernosi metropolitani presenti e futuri, da I guerrieri della notte a Blade Runner a Fuga da New York, in cui le luci artificiali di una perenne notte di catastrofe ecologica illuminano i colori di guerra delle bande urbane, appunto gli “urban bushmen”.
Nella forma filmica, questo mondo come perenne incubo sotterraneo, che ospita una antropologia regredita a massa primitiva, ha ascendenze nell’età eroica del muto, con la Metropolis sotterranea dell’uomo-massa, dei proletari schiavizzati dalla macchina-Moloch. Nella forma pittorica e grafica sono i monocromi bruni e grigi graffiti dalla biacca, l’atmosfera in apnea di ombre nebbiose e luci artificiali del Moore di guerra a trasformare in larve imbozzolate, in mummie contemporanee i londinesi viventi nell’Underground sotto le bombe e i missili tedeschi. È giusto e logico che sia stato un artista inglese a riproporre in forma contemporanea un tema e un’atmosfera che ci riportano alle radici stesse degli aggregati umani della rivoluzione industriale.
Basta rileggere il capitolo L’età della disperazione in Arte e rivoluzione industriale di Klingender, con le citazioni da Dickens (Wolverhampton 1840 nella Bottega dell’antiquario: “da ogni lato, e fin dove l’occhio poteva spaziare in lontananza, alti camini, addossati l’uno all’altro, in una ripetizione infinita della stessa forma monotona e spiacevole, come in un brutto sogno, riversavano fumo nocivo, oscuravano il sole e inquinavano quella malinconica atmosfera… e ancora, a destra, a sinistra, davanti e dietro, vi era la stessa interminabile prospettiva di torridi mattoni, che non smettevano mai di vomitare fumo nero, distruggendo ogni cosa, animata o inanimata, oscurando la luce del giorno e avvolgendo tutti questi orrori in una densa nuvola oscura. Ma trovarsi di notte in questo luogo orrendo! Di notte quando il fumo si mutava in fuoco, quando da ogni camino sprizzavano fiamme, quando i luoghi, che durante il giorno erano stati caverne cupe, ora scintillavano ardenti, con figure che si aggiravano qua e là nelle loro gole risplendenti, chiamandosi con grida roche”) e dal giornalista John Britton, innografo della ghisa e delle prime ferrovie (il Wiltshire 1850: “pareva una specie di pandemonio sulla terra; una regione dove fumo e fuoco riempivano tutto lo spazio fra terra e cielo… All’occhio non appariva alcuna forma o colore che indicasse la campagna, le tinte o aspetti della natura, nulla di umano o divino. Nonostante fosse estate, e quasi mezzogiorno, sole e cielo erano pallidi e oscurati; di tanto in tanto qualcosa di simile a cavalli, uomini, donne e bambini, sembrava aggirarsi in mezzo al fumo nero e giallo e a lingue di fuoco; ma ben presto scomparivano nell’oscurità”).
Pandemonium era il gran palazzo di Satana all’inferno eretto dall’architetto del paradiso Mulciber che lo aveva seguito nella Caduta, nel Paradiso perduto di Milton, illustrato dal pittore-ingegnere visionario John Martin, l’apocalittico equiparatore fra tenebre e fuoco degli inferi e del pandemonium e le nuove città dei dannati della rivoluzione industriale inglese, seguito poi da Doré che rievoca nella sua Londres le tavole dell’Inferno di Dante. Un secolo dopo, Baselitz intitolerà Pandämonium le prime mostre berlinesi del suo mondo rovesciato e inabissato nel 1961-62.
E questa metamorfosi di Ramella negli anni Novanta dei fendenti secchi e acidi della metropolitana nuda del Bronx nelle incisioni graffite della caverna tribale contemporanea, approdo su un videoschermo smisurato e stupendamente dipinto della notte eterna e infernale dell’Inghilterra protoindustriale (a cui la fantascienza scritta e filmata ha aggiunto solo la catastrofe ecologica e la regressione degli aborigeni urbani), si riallaccia dopo una parentesi di tre decenni al pandemonium lucido e “hot”, esistenziale, dei suoi Incidenti e Vetrine e Città dei primi anni Sessanta. Colpisce oggi rileggere il “critico” Paulucci nel 1965: “quadri coloratissimi secchi, talvolta di una gelida spietatezza, rossi puri, neri assoluti, bianchi immacolati, gialli accapponati tra linee e segni rigorosi…. Smarrimento dell’uomo, l’uomo della città, nelle strade della città… l’uomo di oggi, alienato, anonimo e prigioniero di strade cittadine… una luce al neon”.
Paulucci concludeva: “Così Giorgio Ramella cammina per la sua strada, solo, quasi un’allucinazione impietosa tra asfalto e cristalli lucenti”. C’era ancora, nel giovane pittore, la stessa illusione di vita nelle strade, meccanica e oggettuale, di realtà contestata ma modificabile, che permeava negli stessi anni la pop art quanto il nascente neoespressionismo tedesco.
Oggi, l’assoluto disincanto della sua giustificata “cattiveria” pittorica, che intaglia graffiti antropologici come ferite fisiche, slabbrate e dissonanti, sul tessuto ritmico sontuoso monocromo spremuto in verticale o diagonale direttamente dal tubetto, freno calcolato al gesto sfuggente all’archetipo mentale (necessario al versante sciamanico dell’attuale operare di Ramella), gli permette di equiparare l’ombra contemporanea del cacciatore tribale, l’immagine trasfigurata dei simboli magici rituali trasmessici dalla scienza antropologica e la “notte di catrame” della colossale Crocefissione, secondo la definizione di Gianni Romano.

 

LUCA BEATRICE
Vincent, in catalogo mostra
Galleria La Nuova Gissi, Torino 2001

Da Arles, nei primi giorni dell’ottobre 1888, Vincent Van Gogh scrive al fratello Theo questa lettera in cui racconta il celebre episodio dello scambio di autoritratti con Paul Gauguin ed Émile Bernard. Il quadro dell’olandese, oggi al Fogg Art Museum di Cambridge negli Stati Uniti, è diventato così il simbolo della loro amicizia, del legame umano, artistico e spirituale, tra persone costrette a cercare nell’arte la via di fuga da un destino amaro. Alcuni giorni dopo, il 23 ottobre, Gauguin raggiunge Van Gogh in Provenza e trova un uomo malato, solo, segnato da preoccupazioni assillanti come la mancanza di denaro eppure eccitato dall’arrivo di un nuovo compagno. Più che un incontro sarà questo uno scontro tra due personalità forti e diverse. Si stimano, si vogliono molto bene ma si sopportano a stento. Gauguin continua a soffrire di nostalgia per i tropici, dove vuole presto tornare, lasciando un’altra volta solo Van Gogh. Per nove settimane i due artisti lavorano insieme confrontando, nel corso di interminabili discussioni, la loro visione del mondo e della pittura. Per Van Gogh dipingere è innanzitutto la relazione con il vero, perché la realtà e la natura sono gli elementi tangibili di cui ha bisogno. Al contrario, Gauguin comincia a rivolgere lo sguardo verso le zone d’ombra della coscienza umana, il sogno, il mistero, l’irrazionale, e poco sopporta la vita in una piccola cittadina di provincia. Prima dell’esplosione di follia in cui Van Gogh si taglierà l’orecchio, la notte del 23 dicembre 1888, i due artisti vivono insieme per sessantadue giorni. Nonostante l’episodio drammatico e l’abbandono di Arles da parte di Gauguin, continueranno a scriversi e a stimarsi perché, come è detto in un’altra lettera, “Sarà sempre amicizia tra noi”.
Nasce nell’autunno 2000 il nuovo lavoro di Giorgio Ramella intorno all’autoritratto di Van Gogh. La storia dell’arte è ricchissima di autoritratti e tentarne una casistica lascerebbe indietro solo vuoti e imprecisioni. Diverse sono le motivazioni che possono spingere il pittore ad autoritrarsi, ma certo è che l’immagine offerta di sé rivela uno stato psicologico, un desiderio di ideale che va al di là dello stile e del linguaggio della pittura. Il ritratto, infatti, dice molte cose e ci offre una serie di informazioni supplementari intorno al modo di pensare e di essere dell’artista.
Per una corretta lettura dell’intenzione di Giorgio Ramella, e prima di accedere alla visione dei suoi ventinove Van Gogh, è indispensabile scorrere rapidamente queste immagini in bianco e nero a commento del testo. Si apre con l’Autoritratto di Raffaello del 1506, nella tipica posa enigmatica del pittor giovane assurto al ruolo di maestro. Forse è solo una coincidenza il destino che si portò via sia l’urbinate che l’olandese a soli trentasette anni – sul ricorrere fatal-cabalistico di questo numero “maledetto” Flavio Caroli ha costruito addirittura una teoria – ma quella sottile malinconia che passa sul volto, bello e dolcissimo, di Raffaello sembra nascondere l’uomo alla vita, più che parlargli della morte.
Il Rembrandt del 1634, uno tra i numerosissimi autoritratti del fiammingo, rivela l’aspetto strafottente e gaglioffo del pittore professionista, certo del suo talento e della sua fama che gli garantiscono una vita sregolata e il successo. Il pittore è un giovane avventuroso dalla postura sbeffeggiante, gli abiti ricercati, i capelli lunghi ma curati, un soggetto mondano a cui si permetterà qualsiasi stranezza.
I quattro autoritratti di Van Gogh sono del 1887, nel periodo in cui si trovava in una sorta di intervallo dalle crisi di ansia, di depressione e di senso dell’abbandono. È un anno particolarmente fecondo nella produzione pittorica – e infatti scrive poche lettere al fratello Theo dedicandosi soprattutto al lavoro – ma l’aspetto di Van Gogh è pur sempre quello di un giovane vecchio, sempre più magro e con gli abiti lisi, che talora si rivede come un pittore e altre volte si immagina con il cappello da provenzale, nelle giornate più calde.
Simbolo della modernità sono gli autoritratti di Edvard Munch e di Egon Schiele. Se l’artista norvegese fuma, con lo sguardo degno di un dandy nordico o di un attore del cinema noir, Schiele rappresenta l’autocompiaciuto abbandono decadente, l’ambiguità sessuale, la tentazione, sapendo della propria morte imminente, di considerarsi una creatura perduta alle soglie dell’inferno. È degli stessi anni il curioso Autoritratto in figura di Ottone Rosai (1913). Come scriveva Paolo Fossati “Rosai artista giovane sarà artista teppista, sprezzerà i canoni passivamente ripetuti dai colleghi conformisti, macchinerà una profonda, inconciliabile diversità emotiva e psicologica. Anche lui apparterrà alla psicologia novissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache, dell’alcolizzato, cioè alla psicologia di quei marginali cui di recente Martinetti ha invitato a non rimanere indifferenti perché nella modernità la loro creatività è tutt’altro che marginale”.
Il senso della crisi, la perdita del centro nell’arte contemporanea sono rappresentati non tanto dall’autocelebrazione di sé degli autoritratti dechirichiani o di Andy Warhol, ma dalla distruzione formale del soggetto: i tenebrosi disegni di Antonin Artaud, i montaggi fotografici del volto di Marcel Duchamp e i fotodinamismi di Boccioni, lo specchio di Pistoletto, gli strappi e le cancellazioni di Arnulf Rainer, i residui testimoniali delle performance dagli anni Sessanta a oggi.
Nell’autoritratto degli artisti si rivela la pratica del narcisismo che essi attuano “esibendosi e pavoneggiandosi davanti agli spettatori, poco importa se per ottimismo o pessimismo emotivo” (Fossati); ci troviamo di fronte alla bizzarria e al paradosso che sconfinano nella follia; oppure nell’ambito di un “lombrosismo figurativo”, ovvero “nell’ordine delle figure sospese tra estrema e stilizzatissima figurazione e messa in mostra della maschera della radice scientifica della genialità, una maschera che trova conferma nelle più recenti immagini scientifiche, in quella fisiognomica (della fotografia soprattutto) che sa come fissare caratteri, aspetti, motivi eziologici nelle deformazioni, nei tic, nelle smorfie del patologico, del malato, dello sfuggente alla norma” (Fossati).
Ora, se di autoritratti è piena la storia dell’arte, originalissimo è invece il tentativo di lavorare su di sé ritraendo un altro (ad esempio l’interessante precedente dell’olandese Philip Akkerman che si autoritrae “come” Van Gogh). Tenterò allora di spiegare perché i ritratti di Van Gogh sono in realtà autoritratti di Giorgio Ramella.
Chi lo conosce sa che Ramella è pittore dallo sviluppato talento e dalla mente inquieta. Per Ramella la pittura è veramente una palestra, il luogo della sperimentazione formale e l’occasione migliore che l’artista ha di scoprire le proprie carte. Come molti della sua generazione – è nato nel 1939 – gli è capitato di “entrare” nel mondo dell’arte quando la crisi dei linguaggi e delle forme era già cosa fatta. Passata la migliore stagione informale, all’inizio degli anni Sessanta Ramella affronta una sorta di rilettura di alcuni temi della pittura astratta in chiave pop. Nei suoi primi lavori le scomposizioni cubiste diventano possibili punti di osservazione dell’immagine contemporanea. Ebbe fortuna soprattutto con la serie Incidenti, dove l’amore per Picasso si sposò alla suggestione di Andy Warhol. Ma, in particolare, Ramella mette a punto la componente centrale della sua pittura che è, in qualche modo, relazionabile al suo modo di intendere l’essere artista. Intanto non rinuncia mai al gesto, elemento che trova costitutivo nel linguaggio e spinta motore esistenziale della pittura; secondo, non considera il raggiungimento di uno stile e di una riconoscibilità immediata come il fine principale del suo lavoro, anzi tenta, con operazioni e virate talora spettacolari, di sovvertire l’ordine costituito. Perché tutto può essere la pittura, tranne che calma piatta.
Eppure esiste un “Ramella’s touch”: quel modo di spargere il colore direttamente dal tubetto a strisce verticali ricorrendo raramente a strumenti intermedi tra la mano e il supporto. Con questo stile, Ramella è passato dalle composizioni più astratte e monocrome al recupero del graffito metropolitano come memoria senza tempo del segno dell’uomo. Oggi, il particolare ritorno alla figurazione con questa serie di circa trenta ritratti di Van Gogh. Ramella ha cercato nel maestro olandese non tanto l’elemento stilistico formale, quanto la metafora della condizione dell’artista. Gli occhi di Van Gogh sono lo specchio dell’inquietudine, dell’inadeguatezza, del desiderio di essere da un’altra parte, e proprio da questo sguardo fiero Ramella costruisce il “suo” Van Gogh, dichiarando il proprio interesse per una pittura violenta, oltraggiosa, outing. Ramella è un artista che soffre le griglie, che manifesta di continuo la sua insofferenza, e non sappiamo se questo corrisponde al suo modo di vedersi oppure se questa immagine di sé riesce a giungere fino a noi. 
Il modello Van Gogh incarna dunque un ideale d’artista e diventa, nella sua ripetizione ossessiva da ricollegare alla lezione pop, una sorta di icona e di marchio ramelliano. Se l’oggetto perde, nel numero, il valore psicologico per diventare invece ricerca del colore e della materia, è il soggetto Ramella ad essere investito dalla forza del ritrattato. E così il ritratto di Van Gogh diviene l’autoritratto di Giorgio Ramella.

 

GUIDO CURTO
Giorgio Ramella. Una Retrospettiva, in catalogo mostra Verso Oriente
Convento dei Cappuccini, Caraglio 2003

Giorgio Ramella è un artista radicalmente e passionalmente pittore. Per capire il suo lavoro, però, è importante ricordare e precisare che prima d’essersi formato all’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, Ramella ha fatto studi umanistici frequentando alla metà degli anni Cinquanta il rinomato Liceo classico “Vincenzo Gioberti”. Qui ha potuto incontrare docenti di vaglia come Albino Galvano, che oltre ad essere professore di storia e filosofia era anche critico d’arte e artista, e come Carlo Curto, il quale, oltre ad essere docente liceale d’italiano e latino, insegnava Letteratura Italiana all’Università di Torino (ed era altresì, mi si conceda una nota privata, l’indimenticato nonno di chi scrive questa presentazione).
Ramella, lo ammette lui stesso, non era uno studente modello, ma di quella giovanile esperienza scolastica resta in tutta la sua vasta produzione una traccia “colta”, molto significativa. Anche se lui sembra voler prendere le distanze da quella formazione “classica”, adottando comportamenti da “artista” e un modo di fare (ma non d’essere) disincantato e leggero, tipico di chi ha come unici interessi la Pittura e la fascinazione goethiana per “Das ewig Weibliche”, l’eterno femminino.
Ramella ha invece una personalità complessa e sfaccettata che merita una lettura più approfondita (nel senso psicanalitico del termine) e storicizzata di quanto fino ad oggi sia stato fatto, senza nulla togliere ai tanti ottimi critici che con intelligenza si sono occupati in questi anni del suo lavoro, trascurando però l’uomo Ramella. Chi lo frequenta assiduamente e gli è amico, scopre col tempo la sua inquietudine, mascherata da un atteggiamento affabile, giocoso e vitale in superficie, che cela però attimi d’attanagliante solitudine e la costante angoscia per la possibile perdita degli affetti a lui più cari. Nei confronti di questi incubi diurni, Ramella attua una catarsi liberatoria attraverso l’energia vitale della pittura, praticata in modo costante, metodico, rigoroso e appassionato, giorno dopo giorno. Nullo die sine linea, dicevano gli scrittori latini, per Ramella nullo die è sine pingere. Né può sfuggire in occasione di questa retrospettiva, il fatto che il suo stile e le sue scelte tematiche siano costantemente e spesso repentinamente mutate nel tempo.
Quando inizia a dipingere nei primi anni Sessanta, Ramella sceglie, coscientemente, di non aderire a quel programmatico ed eversivo rifiuto della pittura che a Torino prende il nome di Arte Povera. Né tantomeno s’accosta alle neoavanguardie minimaliste e concettuali in quel momento già in auge. Come altri due illustri artisti, attivi a Torino in quegli stessi anni e quasi suoi coetanei, Aldo Mondino e Salvo (nome d’arte di Salvatore Magione), decide di essere pittore ad ogni costo, e s’accorge di non poterlo più fare in modo tradizionale ed accademico. Tra le sue prime opere ricordiamo, ad esempio, le Nature Morte e i Paesaggi, del 1960 e 1961, dipinti astratti a dispetto del titolo, che dimostrano la conoscenza e l’interesse di Ramella nei confronti dell’Informale europeo, dagli esponenti del Gruppo COBRA a Pierre Soulages, in particolare. Di quegli stessi anni sono anche gli Incidenti. Grandi olii su tela in cui Ramella dipinge, ma non raffigura, auto accartocciate in scontri paurosi, e le contorte lamiere sulla tela diventano forme disgregate e segni vibranti d’astrazione pura, dove l’energia del pauroso impatto si trasferisce nell’energia della pittura. Non a caso, a un certo punto, il titolo può diventare Inquietudine (1963). Né può sfuggire il fatto che in tutte queste opere ci sia anche una stretta affinità, non stilistica bensì tematica, con i Car Crash serigrafati in quegli stessi anni da Andy Warhol, e con le sculture realizzate usando carrozzerie d’auto accartocciate da John Chamberlain e da César. Su questa linea, contigua quindi al Nouveau Réalisme francese, si collocano altri dipinti come la Vetrina e la Città, entrambi del 1964, nei quali addirittura compare una logica di frammentazione dell’immagine precocemente decostruzionista.
Nel maggio del 1968, con le prime avvisaglie della Contestazione, Ramella non “scende in lotta”, ma mette se stesso in discussione, iniziando una fase Neo Geometrista. Utilizzando sempre l’olio o la tempera, dipinge composizioni astratte d’impostazione Hard Edge, che hanno come soggetto luci e tubi al neon, elementi d’acciaio, raffigurati in modo da ottenere effetti cromaticamente freddi e metallici (cfr. Paolo Fossati, 1965; Aldo Passoni, 1968). Dal 1969 al 1971 questo astrattismo evolve in forme spazialiste, soffusamente Optical, alla Vasarely (cfr. Mirella Bandini, 1968; Giorgio Sebastiano Brizio, 1969; Luigi Carluccio, 1971). 
Poi c’è un’altra svolta, un vero e proprio Ritorno all’Ordine, e dal 1973 fino alla fine degli anni Ottanta, Ramella si orienta decisamente verso la figurazione. Dapprima il soggetto è solo una stanza vuota, con un’unica sedia al centro, sulla quale giace un misterioso panneggio candido. Una lampadina, sospesa a un filo a mezz’aria, illumina la camera in penombra. Può capitare però che all’improvviso, un colpo di vento spalanchi una finestra, e allora una tenda bianca si gonfia leggera e con l’aria fresca entra la luce. È Un caldo pomeriggio di vento del 1975, è il Giardino di Paola del 1976, Il giardino del pittore del 1977. Tra le imposte socchiuse, dipinte in primo piano e in controluce, scopriamo un’aiuola e più in là un parco inondato di sole, con alberi d’alto fusto che proiettano ombre sul prato e sul selciato. Anche se può capitare ancora che sopra una sedia dentro casa, restino abbandonati un pennello e un tubetto di colore in parte già spremuto. È un particolare importante, questo, perché realizza una sorta di straniamento brechtiano, e sembra voler evitare l’immedesimarsi dello spettatore in quel piacevole naturalismo, dichiarando con forza: attenzione questa è pittura, non è la realtà! 
Tra il 1979 e il 1980 Ramella esegue analoghi paesaggi interiori, nei quali le case, le cose assumono il valore di un letterario correlativo oggettivo e, come in Montale, vogliono esprimere e comunicare un’emozione, uno stato d’animo. Per accorgersene basta osservare opere come Il grande prato, Il cortile del mio studio, Attesa, Nostalgia, Estate, Porta aperta, Il silenzio di un giardino chiaro, Autunno americano. Alcuni di questi dipinti trovano spunto e ispirazione in un viaggio che Ramella compie negli Stati Uniti, nel New England e nel Vermont. Da questo soggiorno nascono vedute amplissime, di taglio cinematografico, che paiono estrapolate direttamente dallo schermo dei primi film in cinemascope: Autunno nel Vermont (1981), Verso il Vermont (1982), Nel New England (1982). A un certo punto, però, questi quadri devono esser sembrati a Ramella troppo facili e aggraziati.
Così, alla metà degli anni Ottanta, assistiamo ad un’altra repentina svolta, in direzione meta-concettuale. In quei vasti e sereni paesaggi, all’improvviso, inopinatamente, compare un personaggio emblematico: un pittore, che vaga solitario col cavalletto sulle spalle, camminando in mezzo alla campagna. Rappresenta lo stereotipo dell’artista ottocentesco, dell’impressionista alla ricerca della luce “giusta” per dipingere en plein air, tra verdi prati, dolci colline e campi assolati. Non c’è bisogno di essere iconologi né psicanalisti, per comprendere che quel pittore è l’alter ego di Ramella, artista irrequieto, sempre in cerca d’un nuovo immaginario e d’un nuovo linguaggio. Così si spiega non solo la presenza di quel pittore in cerca di Godot, ma anche l’uso del colore che d’ora in avanti è steso in tonalità acide, dure, come in un film in technicolor. Tutto questo, forse, deriva dall’amore di Ramella per il cinema e per la cultura statunitense, sia letteraria che artistica. Quella di romanzieri come Francis Scott Fitzgerald e di pittori come Edward Hopper. Il Neorealismo americano viene da Ramella però rivisitato in chiave argutamente concettuale, propria di artisti, come Giulio Paolini, che costantemente riflettono sul senso del loro fare arte e, nello specifico di Ramella, fare pittura. Questo fatto lo si comprende ancor meglio nei dipinti degli anni Novanta, nei quadri che hanno come soggetto pavimenti di legno macchiati da getti e fiotti di colore; Parquet sui quali si rovescia sbadatamente un barattolo ricolmo di vernice rossa o gialla.
Nel 1991, in occasione di un altro viaggio negli USA, Ramella è affascinato dalla subway di New York e in particolare dalla fermata di Coney Island. Resta colpito dalle pareti gialle sulle quali campeggiano scritte rosse a spray, tracce e segni d’una vita che pulsa sotterranea, underground. Di qui ha origine una serie di circa trenta dipinti nei quali, per sfuggire da ogni graziosità ed eleganza, Ramella spreme i colori direttamente dal tubetto e li stende sulla tela in una serie di linee sottili, disposte una accanto all’altra in modo da formare composizioni a prima vista astratte. A ben guardare, però, ci s’accorge dell’esistenza di un impianto prospettico suggerito da linee diagonali. Inoltre la presenza di sciabolate di colore acido fa venire in mente la luce fredda dei neon della metropolitana. Subway appunto. “Un nome solo per decine di sguardi e relative sensazioni ed emozioni, tutte raggelate nel cuore e incise a fuoco nella memoria. In una ripetizione ossessiva di attimi, emozioni sincopate, proliferazioni alienate d’istanti allungati e fermati oltre il limite, in attimi narrativo-pittorici stridenti e acidi, scabri come scosse”, evocativamente scrive Olga Gambari presentando la mostra di questi dipinti al Castello di Barolo (Cuneo) nel 1999.
Dai graffiti metropolitani Ramella passa subito dopo ai graffiti preistorici e si mette a dipingere, con la stessa tecnica delle Subway, ispirandosi in un primo momento alle incisioni rupestri del Tassili e poi ai dipinti degli aborigeni australiani. L’effetto materico dei colori ad olio non diluiti in trementina, ma stesi corposi direttamente sulla tela, fa sì che questi lavori ci appaiano come bassissimi rilievi. La pittura è sempre meno astratta e nel quadro affiorano molti elementi figurativi. Al centro d’una vivida campitura gialla si staglia, ad esempio, la silhouette nera di un guerriero, armato di arco e frecce, oppure, in un altro caso, un fondo grigio ardesia è attraversato da un’acuminata freccia gialla. È l’immaginario “dell’aborigeno metropolitano”, secondo l’acuta definizione data dal professor Marco Rosci nella presentazione al catalogo della mostra personale di Ramella alla Galleria Maze di Torino nel 1999.
Siamo così arrivati alla fine degli anni Novanta e a questo punto, cronologicamente, si colloca il ciclo dedicato agli Occhi di Van Gogh realizzato nel 2001, che segna un evidente ritorno alla figurazione. Con l’inizio del Terzo Millennio, Ramella esegue una serie di grandi oli su tela ispirati ai celeberrimi autoritratti di Vincent Van Gogh. Non raffigura però l’intero volto dell’artista olandese, ma solo il particolare di quegli occhi inquietanti che interpreta in tante diverse variazioni sul tema, usando un colore dominante: nero, giallo, rosso o blu. Quegli occhi riproducono lo sguardo profondo e scrutatore di Van Gogh, ma sono anche la trasposizione autobiografica e autoironica dell’inquietudine propria dell’artista. Non siamo in presenza di esercizi di stile, non sono banali d’après, ma una trasposizione d’identità.
Quest’ansia sembra trovare serenità nei lavori più recenti, del 2002 e 2003, che ancora una volta evidenziano l’inesausta, straordinaria capacità di Ramella di rinnovarsi. Con un mixaggio assimilabile a quello d’una cover musicale, Ramella dipinge grandi quadri ad olio su tela connotati da un immaginario che prende spunto dall’arte e dalla cultura dell’India e dell’Estremo Oriente. Anche i colori, di per sé già molto intensi, delle miniature indiane, vengono messi ancor più in risalto e resi quasi incandescenti. In qualche caso Ramella tende al monocromo, con variazioni di luce ottenute grazie a materici giochi di colore; in altri casi i cromatismi sono disparati e fanno vibrare tutta la superficie del dipinto. 
In questi nuovi soggetti vediamo sovrapporsi interni ed esterni, elementi di paesaggio paiono nascere dentro magiche stanze, dialogando con squarci di terra e orizzonti misteriosi. I cieli possono essere calmi, evocanti un’alba dolce, oppure cupi e azzurrati, solcati da lampi di tempeste lontane. La presenza umana compare di rado e quando ciò accade vediamo flessuosi corpi femminili e maschili avvinti in erotici amplessi, sensuali e fedeli citazioni del Kamasutra. È il recupero d’un rutilante immaginario favolistico, da Mille e una notte, che esprime e comunica un élan vital nuovo, perché lo sguardo di Ramella oggi è rivolto Verso Oriente.

 

NICO ORENGO
Orienti della memoria, in catalogo mostra Orienti
Galleria Giampiero Biasutti, Torino 2004

Con Giorgio Ramella ero rimasto con i suoi Cezanne e Van Gogh, passi e sguardi sulla pittura, un dialogo, un dialogo intenso sulla pittura e i suoi mezzi, un discorso metalinguistico sulla possibilità del fare artistico oggi senza debordare o rifugiarsi oltre la tela oltre i colori. 
Perché da sempre Ramella è uno sperimentatore, ma uno sperimentatore che mai potrebbe annullare la figurazione, il colore, i vecchi strumenti del dipingere. E questo suo stato, questa sua disponibilità a cercare continuamente nuovi punti di vista con eguali strumenti non può che renderlo “insoddisfatto”, in “attesa”. In attesa di trovare quel “motivo” che gli restituisca la possibilità di continuare, appunto, a dipingere. Paolo Fossati la chiamava: tensione, “questa tensione di Ramella si esteriorizza in narrazione di ambiente, di natura, in teatro di memoria”.
Per Ramella, forse più che in molti altri pittori suoi coetanei, è importante la “narrazione”, raramente lo si vede “ripetere” un quadro, può, a un primo sguardo, può dare l’impressione che quell’ambiente, quel paesaggio, già lo si sia visto, ma ad una visione più attenta ci si accorge che Ramella è andato avanti, che è una inquadratura successiva, che la storia ha nuovi oggetti o protagonisti. Nella sua storia ogni quadro si lega e prepara il successivo. I temi, o i protagonisti, allora di questa operazione non possono che essere grandi personaggi della pittura, della letteratura, del paesaggio. Proprio come avviene ora nei suoi nuovi quadri sull’Oriente. Un Oriente visto con sguardo da europeo, da mediterraneo. Quello sguardo che ha mescolato Baudelaire a Flaubert, Gozzano a Parise. Un Oriente da “Mille e una Notte” soprattutto, sempre, almeno qui da noi, letto in edizioni tagliate, per ragazzi e ampliato al cinema sulle medesime icone: palmeti, grandi tende, sabbia, brocche, lune magre, figure velate, figure amorose, tappeti. 
Ora, se l’Oriente, sappiamo, è tanto, molto di più quella stilizzazione figurativa rimane salda nella visione. Ed è quella che qui ci restituisce Ramella, colorando in modo squillante o sottolineando con un bianco e nero o addirittura in un modo non finito, per accentuare quella sua idea di “rilettura”, di “attraversamento” di uno spazio già scritto, già dipinto.
E lo fa con un ulteriore “spiazzamento” citazionista, si perché a guardare certi frammenti di paesaggio, certe presenze di colore, si può trovare una pennellatura alla Salvo o alla Paladino: citazioni ma anche omaggi ad un certo modo di intendere e fare pittura.
Orienti della memoria, visti quasi sempre da un interno, Orienti “teatrali”, che non escludono una diversa realtà, semmai la confinano al di là di una nera finestra, attraversata da un lampo che vibra di inquietudine. Perché, sembra suggerire Ramella l’oriente che è in noi è mito e favola, è quel grande libro di educazione sessuale che si chiama Kamasutra, e di cui con ironico pudore, ce ne offre una tavola.
Anche in questa nuova “narrazione” Ramella si conferma come un acuto “lettore di immagini”, un pittore che nuota nel colore, per ricomporre una sua particolare visione dell’universo pittorico, che è convinto, andrebbe “ridipinto”.

 

OLGA GAMBARI
Le mille notti d’oriente, in catalogo mostra Orienti
Galleria Giampiero Biasutti, Torino 2004

Le cronache dei Sassanidi, antichi re di Persia, i quali avevano esteso il loro impero nelle Indie, nelle grandi e nelle piccole isole che dipendono da esse, e molto più oltre, di là dal Gange fino alla Cina, riportano che c’era una volta un re di quella potente dinastia che... 
Come cominciano sempre le favole, con una mitica terra lontana e un principe, così cominciano “Le mille e una notte”, la lunga raccolta di fiabe che durano quante notti la bella e saggia Sherazad riuscì a blandire la crudeltà del sultano delle Indie, fino a farlo innamorare e a concederle salva la vita. Strana storia d’amore la loro, eppure in quell’ambiguità di passione e morte, in una seduzione magica e fatale, si racchiude tutta la malia dell’Oriente. Una collezione di racconti di autori vari e fonti molteplici, sia scritte sia orali, in cui si mescolano echi del mondo indiano, persiano e soprattutto arabo, arrivata in Occidente nel Settecento, attraverso la traduzione di Antoine Galland. Tra quelle pagine sembra che Giorgio Ramella sia andato ad intingere il pennello. Con l’orecchio avvolto insieme dalle fiabe de “Le mille e una notte”, dai poemi epici del “Mahabarata” e del “Ramayana” e dalla poesia d’amore indiana, e con l’occhio riempito dalle illustrazioni del Kamasutra, leggendario libro dell’arte amatoria, e da antiche pitture e miniature della zona indorientale. Erotismo e favola sono fusi indissolubilmente nella spessa pasta cromatica che anima i suoi ultimi quadri, chiamati semplicemente “Oriente”. Anche Ramella racconta, alla maniera di un viaggiatore che abbia visto e sentito, ma soprattutto percepito, paesaggi e volti di quella terra millenaria dall’esuberanza sfaccettata e piena di contrasti, sensuale e policroma. Viaggio di emozioni e suggestioni il suo, all’interno di un immaginario d’autore dove ci si sposta e si conosce attraverso la fantasia, la lettura, la musica. Una contemplazione estatica ed estetica, fatta di sontuosi palazzi, principeschi interni, presenze femminili fuggite da rilievi scultorei di templi abbandonati e ingoiati dalla vegetazione.
In mezzo si aprono vedute, squarci da cui entra il mondo esterno : all’orizzonte si stagliano profili di cupole e minareti, foreste e giardini con palme bianche, rombi di tuono in lontananza. A volte nel cielo si vede il tramonto, altre i riflessi della luna. Come guardando una lanterna magica scorre il mondo fuori. Ogni tela ritrae ambienti che combinano lo spazio architettonico e quello naturale, uno dentro l’altro, come seguendo uno sguardo che esplora.
In un silenzio estratto dal tempo e impregnato di languore, tra stanze, verande e terrazze si muovono figure femminili simili a idoli, colte in pose statuarie. Come in lente danze flessuose sorridono enigmatiche, magari specchiandosi compiaciute: seni come pomi, adorne solo di gioielli, in una nudità solare. Oggi ancora lei, la nera chioma morbida di riccioli,\ gli occhi allungati come i petali del loto notturno\ in fiore,\ il rigoglio dei seni erti, pungenti,\ nel pensiero contemplo come l’insegnamento\ del maestro scriveva nel XI-XII secolo il poeta indiano Bilhana ne “Le stanze dell’amore furtivo” (in una curiosa assonanza con la narratrice de “Le mille e una notte”, secondo la leggenda il poeta in questione era un maestro di letteratura, che un re condannò a morte per avergli sedotto la figlia, a lui affidata come precettore. Come ultima grazia Bilhana chiese di poter comporre una poesia, e scrisse così cinquanta strofe dove ricorda gioie d’amori lontani. Ma la bellezza della lirica alla fine fu tale, che il sovrano gli concedette la libertà). Corpi d’ambra che l’artista tinge anche di blu cobalto e rosso carminio, trasfigurandoli in astratte sagome sensuali dalla stilizzazione primitiva. Occhi allungati fino alle orecchie, disegnati dal nero del kajal, capelli come cascate sciolte sulle spalle. Sulla pelle cavigliere e pendagli, ninnoli che sfiorano l’ombelico, risuonando misteriosi negli angoli delle stanze, nelle ombre a lato della tela.
Tutto sta apparentemente immobile, bloccato in una dimensione oppiacea, eppure si avverte un senso di pericolo indefinito, una lieve minaccia latente, come un serpente accovacciato dietro a una tenda preziosa. Dorme acciambellato, ma prima o poi si sveglierà per strisciare ovunque. Questa ambiguità si traduce in un’energia sotterranea e fluorescente, che anima un ricco ciclo pittorico dal segno carnale e ubertoso. Ramella crea una pittura tattile che parla ai sensi. Attraverso le pupille si accende l’olfatto e si allerta la pelle. Dagli spessi colori a olio, tridimensionalità materica che muove la bidimensionalità della tela, sembrano emanarsi profumi di essenze e unguenti, impercettibili effluvi di fiori di loto sbocciati negli stagni all’alba, insieme ai gigli acquatici.
Su questa estaticità cesellata come una miniatura, Ramella interviene con una gestualità segnica dominata al limite. Un tratto inciso scava la pittura per linee essenziali, sbozzando le immagini con una prospettiva libera e decostruita, che sovverte la composizione in visioni mosse, dove si affaccia sempre la tentazione dell’astratto. Una tipica caratteristica stilistica dell’artista, che dagli anni Sessanta alterna fasi figurative ad altre astratte.
La morbida visione iniziale risulta, quindi, ribaltata da prospettive esasperate, che danno l’idea della dimensione mentale in cui le immagini sono nate, dove la realtà si mimetizza in allucinazione interiore. Un’irregolarità che prende spazio e libertà con slancio gioioso, esplodendo in colori brillanti e corposi. Arancio, rosa, carminio, viola, lavanda, ocra come cannella, coriandolo, paprika, curry, henne. Una tavolozza fatta di spezie, per pitture come smeraldi, zaffiri, rubini, topazi, ametista. È l’India favolosa di principi e degli arabeschi, dei templi e delle alcove, delle donne regine e cortigiane, dove il sangue è sinonimo di eros e di thanatos.

 

FRANCESCO POLI
Giorgio Ramella un Oriente su misura, in catalogo mostra
Galleria Weber & Weber, Torino 2006

Tutto l’ultimo lungo ciclo di opere di Giorgio Ramella è dedicato a un unico tema: l’Oriente. Ma guardando questi dipinti, dai più piccoli ai più grandi, ci si accorge subito che non c’è nulla di veramente orientale salvo degli ornamenti iconografici – volti, figure, arredi, qualche palma – messi in scena con grande libertà, quasi pretesti divertiti per animare narrativamente il gioco articolato e cromaticamente acceso delle composizioni. Certamente emergono dei riferimenti colti, e anche abbastanza precisi, alla cultura indiana in particolare e all’immaginario favolistico delle Mille e una notte, ma tutto questo viene felicemente reinventato e ricombinato attraverso un linguaggio pittorico ben poco orientale. E in effetti, il viaggio di Ramella è tutto interno al filone dell’esotismo di tradizione europea. Non a caso uno dei suoi riferimenti privilegiati è il Matisse orientalista, anche se, ovviamente, non c’è nessun condizionamento stilistico diretto. È il gusto matissiano per la freschezza e la vivacità dei colori che Ramella fa suo, reinterpretandolo in chiave post moderna. Tra gli artisti della sua generazione mi pare che Aldo Mondino, con il suo esotismo mediorientale carico di divertita ironia, sia quello più affine nonostante la notevole differenza pittorica. Mondino ha – purtroppo bisogna dire aveva – una matrice figurativa pop, mentre Ramella privilegia l’espressività della materia cromatica e anche in parte quella della tensione gestuale di caratteristiche che determinano una particolare distorsione (intenzionale) degli elementi figurativi, fino al limite, talvolta, dell’astrazione.
L’impianto compositivo della maggior parte dei quadri, quelli che presentano scene di interni con aperture verso l’esterno, è costruito come una sorta di piccola scena teatrale dove tuttavia lo scenario risulta decisamente scombinato e frammentato (oltre che, come già detto, deformato). Ma questa dimensione scomposta non fa riferimento al cubismo: piuttosto ricorda certi interni sconnessi di Alberto Savinio.
In ogni caso i dipinti di Ramella sono soprattutto una bella e variegata festa di colori che prende forme riconoscibili ma che sembra voler quasi liberarsi da ogni costrizione compositiva. La stessa materia a olio, vitalizzata da tessiture pittoriche variate, si accende di valenze poetiche attraverso accordi felici di gialli, aranci, rosa, violetti, blu e neri. Si può dire, dunque, che forse non è la pittura che racconta l’Oriente, ma è un certo Oriente su misura che racconta la pittura: quella di Giorgio Ramella.

 

ENRICO CRISPOLTI
Ramella: dai Graffiti all’Oriente 1994-2006, in catalogo mostra
Complesso del Vittoriano, Roma 2006

Dalla Preistoria all’Oriente, in spettacolarità di pura pittura
Questa mostra si compone di tre capitoli, corrispondenti ad altrettanti cicli di lavoro pittorico, pressoché interamente relativi agli anni 2000, di Giorgio Ramella. Ma l’avvio della sua lunga e movimentata vicenda immaginativa, vissuta interamente o quasi a Torino, risale alla fine degli anni Cinquanta, in clima di immersione iconica in un materismo tipicamente informale. Soltanto tre momenti, appunto i più recenti, del suo lavoro, sono in questa che certamente ne è comunque la prima importante presentazione a Roma e costituisce sicuramente anche una delle più ampie del suo lavoro (due anni fa ricostruito in un’antologica cospicua e puntuale a Caraglio). I “graffiti”, “Vincent”, e “Oriente”, sono momenti sostanzialmente fra di loro connessi per aspetti di gestione assai scoperta e diretta del linguaggio pittorico (con colori in stesura segnica, spesso spremuti direttamente dal tubetto), eppure sufficientemente distinti in una loro autonomia d’intenzioni. Così da poter costituire storia a sé, da poter dunque essere affrontati anche a prescindere da un riferimento condizionante a portati molteplici e disparati che caratterizzano la lunga vicenda pittorica ramelliana (del resto a Roma non sufficientemente nota).
I graffiti
Indirettamente e a distanza il ciclo dei “graffiti” nasce dall’attrazione di scrittura, fra segni e immagini, che ha animato visivamente la scena della metropolitana newyorkese. Quei graffiti che attirarono l’attenzione di scrittori, sociologi, pittori, negli anni Settanta, almeno dal testo dedicatogli da Norman Mailer nel 1974, e che poi, negli Ottanta, hanno costituito il fondamento di un tentativo di trasferirne le sollecitazioni immaginative in nuovi prodotti del mercato artistico, con risultati di assai corto respiro e di pittoresca inautenticità (a fronte dell’autenticità esistenziale e oppositoria delle scritture originarie, di effettiva vocazione popolare alternativa). Accadeva esattamente in quella corrente di breve e asfittica vita creativa che è stata detta subito dei “graffitisti”, rispetto all’ambito della quale le uniche proposizioni veramente valide, originalmente convincenti, rimangono quelle rappresentate dalle spasmodiche affermazioni di una diversa identità di un Basquiat, o da certe desunzioni di decantazione pittorica di un Brown (e se mai, in Europa, dall’adesione del primo Penk, tedescorientale, o di un Combat, francese). Corrente che ha avuto in Italia svariata eco, registratasi in particolari provinciali entusiasmi imitativi, peraltro di scarso respiro, e in ingenuità critiche che ne hanno allora accompagnata un’esaltata divulgazione.
Ma i graffiti sollecitavano comunque una forma di scrittura pittorica immediata, arrischiata in una casistica disegnativa liberamente trascorrente fra iconico e aniconico. In certa misura gli annosi grafismi segnico-gestuali di Vedova vi si rispecchiavano agevolmente. Mentre Moreni, quel genere di input di una scrittura pittorica affermativa di grande vividezza a un tempo sociologica e psichica, lo metabolizzava del tutto naturalmente quale possibilità nuova di scrivere in modo impulsivo e del tutto immediato i propri eversivi pronunciamenti di radicalismo critico verso l’invasiva innaturalità dell’assillante consumismo spinto contemporaneo. Praticandola a partire dal 1983, in un’accentuazione parossistica comunicativa che scavalcava l’istintività tuttavia ripetitiva dei graffiti murari a favore d’una liberissima scrittura pittorica, gestuale, segnica, materica (il suo avvincente ciclo della “regressione della specie”, nell’ottica del “regressivo consapevole”). 
Ramella le sollecitazioni immaginative di nuova grafia costituite dai graffiti metropolitani le ha assunte in altra stagione e perciò svincolatamente da quella corrispondenza di motivazione sociologica o quantomeno altrimenti di rabbiosa dichiarazione non soltanto di scacco esistenziale ma appunto di degrado della specie. Se ne è fatta semplicemente ragione di pittura, cioè di diverso modo di sintesi grafica espressa in una testualità pittorica che, proprio nel gioco di oscillazioni e intrecci delle varianti grafiche liberate, ha recuperato una possibilità di scrittura pittorica immediata. E sia nella larga definizione di “campi”, cioè delle textures dei fondi sui quali si profilano gli essenziali movimenti grafici e formali allusivi; sia nella configurazione di questi ultimi, protagonisti di inattese movenze, vagamente d’accenno, schematico quanto altrimenti embrionale, a figure umane, proprio come in graffiti preistorici.
All’esordio degli anni Novanta, a New York la “subway” aveva inizialmente interessato Ramella come casistica di spazi racchiusi, claustrofobicamente allusi nei suoi dipinti di quegli anni in un riporto d’incastri grafici di profili su contesti di superfici sulle quali, già definite in un tratteggio verticale di puro colore a corpo, si distendevano dunque quasi in esibizioni d’arabeschi d’incastri. L’evoluzione verso l’immissione di una allusività figurativa entro le campiture risultanti in tale spazialità racchiusa ha forse come tappa significativa il grande dipinto Crocefissione, del 1994, che appunto suggerisce graficamente una linearmente schematica figura protagonista.
Nella sua elaborazione immaginativa, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, Ramella mette infatti a frutto quella remota attrazione dei graffiti newyorkesi risalendo all’iconografia d’estrema sintesi allusiva dei graffiti preistorici, incisi spesso oltreché dipinti: dunque a silhouettes di armi, strumenti, e soprattutto simbolizzazione di figure umane. Anziché di una possibile irruzione nel presente, il “graffito”, fortemente sostanziato di una texture pittorica di colori spesso puri, matericamente a corpo, diviene dunque per il pittore torinese lo strumento immaginativo di una escursione oltre il tempo storico, in un remoto indefinito, magico. Pretesto per un far pittura di racconto, di segni, d’alluse presenze figurative, giocando sulla mera referenzialità iconica e confidando su una densità tutta inventivamente goduta (con matissiana sensuosità cromatica) del contesto pittorico. 
Così la preistoria è traccia di possibile presente, in forme e modi di eleganza immaginativa sviluppata attraverso una varietà combinatoria che sembra inesauribile, privilegiando costantemente il fascino delle combinazioni cromatiche grafico-formali svolte in discorsività affabulatoria, entro un registro, quasi uno schermo, di notazioni ravvicinate. Il tutto con un tributo di deferenza alla lezione alta di Matisse, che sembra veramente essere il fondamento del cromatismo imprevedibilmente sontuoso che percorre questi tre nuovi cicli ramelliani. E che nei “graffiti” concorre certamente alla formazione d’un clima di fresca divagazione immaginativa, di racconto tutto infine affidato all’invenzione grafico-formale dei rapporti pittorici. Esattamente godendo delle combinazioni, in transito sulla superficie-schermo, di silhouettes animate su campiture pittoriche verticalmente tissulari. 
L’attualità sensibile del piacere pittorico immaginativamente esercitato vi fa chiaramente premio su ogni tentazione possibile di spiazzamenti temporanei, in modi di supposti remoti arcaismi. L’analogia preistorica vi risulta insomma sostanzialmente pretestuale all’attualità inventivo-divagatoria, al puro piacere delle varianze dell’immagine pittorica, che nomina persone e cose soltanto appunto attraverso rastrematissime essenzialità grafiche. Eleganti e sapidi esercizi di pura pittura.
Vincent
Ma malgrado i nessi di volta in volta certamente visibili in termini di un’evoluzione linguistica in verità tutt’altro che prevedibile, nella pittura di Ramella ogni ciclo può esibire una propria assai pronunciata caratterizzazione. Ed ecco che alla divagazione immaginativa che nei “graffiti” si esprime soprattutto appunto in discorsività di puro piacere d’invenzione combinatoria formale, grafica e cromatica, nel suo lavoro recente, si contrappone a breve l’impianto sostanzialmente invece iconico psicologico che caratterizza il ciclo dedicato al volto di Van Gogh, il ciclo di “Vincent”, elaborato nei primissimi anni del nuovo secolo. O meglio il ciclo dedicato a quelli che chiama a ragione “ritratti degli occhi di Van Gogh”, in quanto icone singolari che sembrano riproporci, esaltandolo, unicamente il magnetismo oculare quale rastremazione interpretativa estrema, scarnificazione iconica, di noti autoritratti vangoghiani del 1887, ’88 e ‘89. Nei quali indubbiamente la inquietante presa psicologica su chi guarda se certamente è puntualizzata proprio negli occhi, tuttavia lo è al di dentro di un impianto iconico più complesso ma in certa misura al tempo stesso più piano.
Il riferimento a Van Gogh ha radici profonde in un giovanile amore simpatetico che rimonta a quando Ramella si stava avviando a un destino d’identità appunto attraverso la pittura. L’insubordinazione esistenziale vangoghiana, il suo grido contro un destino, la sua intima rivolta e denuncia d’una condizione d’esistenza, e della specifica condizione d’esistenza dell’essere pittore (come intese sottolineare vigorosamente a suo tempo Bacon, episodicamente quanto vividamente figurando l’olandese girovago fra i campi) sono certamente un’attrazione emblematica per l’impulso oppositorio che anima la formazione d’un giovane (e tanto più l’animava quando il traguardo appariva più quello di un’affermazione antagonistica che di una raggiunta omologazione nel ritmo del consumo conclamato, come è da troppi anni costume comportamentale corrente). 
Lo sono stati per il giovanissimo Ramella, lo ritornano a essere ora, quando è poco più che sessantenne. Non tuttavia come un idolo di moralità esistenziale e artistica, quanto come un magnetico feticcio di insinuante presa psicologica attorno al quale evocare, fare, pura pittura. Quasi un identikit per feeling meramente oculare, entro un campo di pittura pura praticata in un’immediatezza diretta di stesura, d’ascendenza certamente anche vangoghiana. Presenze fantomatiche insinuanti, psicologicamente vincolanti, che tuttavia si danno come icone di tutta pittura, in un impianto pittorico la cui declinazione scorre dall’accigliarsi psicologico al puro godimento cromatico. E sempre in nome di Vincent e delle sue ragioni ma al di là del suo vincolante destino. Vale a dire ridando la parola al piacere possibile offerto dalla pratica immaginativamente incondizionata della pittura, piuttosto che a una denuncia di destino esistenziale attraverso l’esaltazione impressiva della forza simbolica della pittura medesima (fra ductus del segno e potenza cromatica), come accade nei testi originari. 
Anche qui insomma operando Ramella per pura pittura e tuttavia appunto, nella fattispecie, secondo una declinazione iconica psicologica molto specifica rispetto all’andamento di volta in volta prevalente in altri cicli; e certamente perciò più impressiva, quasi a volte fantomaticamente sorprendente, d’inquietante memorabile eco.
Oriente
La motivazione originaria della particolarità del ciclo più recente, sul quale lavora da alcuni anni, e tuttora, dedicato all’Oriente, a un tutto suo Oriente, la spiega bene Ramella medesimo quando ricorda come sia stato sollecitato dalla teatralità narrativa di interni di un Kamasutra illustrato capitatogli anni fa fra le mani. Qui infatti, nell’ampio ciclo di dipinti che ne ha tratto spunto, l’Oriente è colore che si esalta negli snodi di un racconto non relativo ad azioni ma proprio a una sorta di continua autorappresentazione ambientale scenica, appunto di “interni” sforati su cieli lontani, misteriosi.
Se Matisse, la sua sensualità panica risolta nella sintesi dei profili, nello sviluppo delle larghe, liberissime, sintetiche campiture cromatiche (in realtà ben più che giovanilmente l’esasperazione d’attestazione di destino esistenziale di Van Gogh) è stato un fondamentale punto di riferimento di cultura pittorica totalizzante, non v’è dubbio che in questa immaginaria traslazione torinese d’Oriente Ramella giunga a una sorta di dichiarazione di simpateticità immaginativa, d’intimo amore. E persino risolvendo a suo modo le suggestioni matissiane in pronunciati snodi di racconto, proprio al contrario d’un effettivo scrupolo di rispondenza alla sintesi di quel modello, aulico per forza di sintesi quanto discorsivo per disponibilità di suggestione sensitiva magistralmente racchiusavi. 
Un Oriente il cui scenario, fatto appunto di stanze, pareti, tappeti, letti, divani, oggetti, piante e presenze e transiti di figure femminili, a volte di loro emblematici volti ravvicinati, sembra innestarsi, tuttavia innocuamente, su una tradizione di teatralità pittorica ambientale immaginosamente animata, fra Savinio e de Chirico, sopra tutti. Un possibile matissismo riletto in chiave di riduzione scenica di suggestioni metafisiche sembra infatti la sostanza del divertimento pittorico nel quale, orientalizzandosi, l’immaginazione di Ramella sembra del tutto presa in questo ciclo al quale sta ancora dedicandosi. E nel quale proprio l’impianto virtualmente narrativo (se non altro delle componenti dell’occasione scenica ambientale d’“interno”) accende le possibilità d’una effettiva spettacolarizzazione di modi di pura pittura idolo.
Che sono quelli attraverso i quali il percorso pittorico del torinese arriva a farsi più ricco in articolazione di forme e, attraverso queste, di suggestioni cromatiche. Appunto per un piacere di pura pittura che segna per ora il più esplicito approdo d’un libero immaginare occasioni di sensitiva esaltazione delle possibilità del far pittura in termini di esaltazione delle possibilità fantastiche ed evocative del colore, tanto più significante quanto maggiormente acceso ed emotivamente attrattivo, in un’impianto iconico pretestualmente favolistico.
Forse quest’Oriente ramelliano sarà anch’esso una nuova nascita in termini appunto di favolosità narrativa immaginosamente evocativa di possibili delizie della pittura. Certamente è un momento nel quale, finora, s’addensa maggiormente la complessità della sua volontà di spettacolarizzazione pittorica attraverso lo snodo scenico d’una apparente intenzionalità narrativa. In qualche misura Ramella vi realizza un teatro pittorico nella varietà delle cui componenti sembra recuperare un principio di complessità, quale misura di più ricca eventualità immaginativa, che era stato intuito nel suo remoto giovanile lavoro di ricerca di relazioni fra componenti dinamiche d’un evento, come accadeva in intenzioni d’ampio respiro compositivo, nei suoi dipinti dell’esordio degli anni Sessanta in impliciti scenari urbani.
Come premessa posticipata
Infatti i tre cicli qui presentati in una loro autonomia in realtà s’innestano quali ultime caratterizzate tappe d’un lunghissimo e svariato percorso pittorico attraverso le cui articolazioni la personalità di Ramella acquista una sua caratterizzazione proprio sotto il segno dell’insubordinazione di volta in volta manifestata relativamente al rischio di chiudere lo scenario delle possibilità del proprio far pittura entro consecutività d’ordine linguistico oppure iconico. Affermandovi invece di fatto una disponibilità, del tutto caratteristica alla sua personalità, a provocare le qualità proprie del linguaggio pittorico (colore e forma, fra enunciazione, costruzione, rappresentazione ed evocazione) nelle più diverse possibilità d’organizzazione comunicativa. Fra complessità e decantazione, fra organicità e struttura, fra insieme e particolare, fra disparata accensione cromatica e gradualità quasi monocroma, e fra astrazione strutturale e invece esplicita figurazione, e fra impegno rappresentativo e disinvoltura d’allestimento scenico di questa (come appunto nelle sue quasi ludiche evocazioni d’Oriente). 
Mossosi alla fine degli anni Cinquanta in clima di densità materica pittorica di espressività informale, e sensibile all’inizio dei Sessanta a una problematica di “possibilità di relazione” che aprisse a nuove trame di riscontro su un reale riconosciuto appunto in riscontri relazionali, in prospettive di superamento delle esperienze informali, e culminando a metà di quell’apertura in analogie di compenetrazioni dinamiche urbane (in suggestioni fra di Romagnoni e di Hultberg), nei secondi Sessanta Ramella opta invece per un processo di decisa rastremazione strutturale dell’immagine pittorica. Esattamente di attenzione focalizzata su singole articolazioni strutturali, su brani e frammenti che lasciavano spazio a risultanze cromatiche accese. Ed è un traguardo chiaramente d’evoluzione non-figurativa. Mentre all’inizio dei Settanta Ramella è impegnato in esercizi di analisi di gradienti di luminosità cromatica entro situazioni di fatto monocrome, parimenti d’impianto non-figurativo.
A questa stagione appunto d’approdo non-figurativo, dalla complessità all’essenzialità, vissuta fra inizio dei Sessanta e inizio dei Settanta, verso metà di questi ultimi, nei suoi interessi pittorici, si registra una repentina denuncia di crisi attraverso la quale Ramella sembra voler riaffermare il diritto rappresentativo della pittura, dapprima rivolgendosi a singoli oggetti spazialmente isolati, ma poi, lungo i secondi Settanta e i primi Ottanta, rifacendosi a compiti rappresentativi, pur se secondo particolari tagli orizzontali sopratutto di paesaggi per lo più ravvicinati, in un cromatismo assai acceso riscontrato tuttavia tale proprio attraverso la disponibilità rappresentativa più particolareggiata. 
Sono modi che da metà degli Ottanta cedono il passo a una volontà di sintesi che induce il riscontro rappresentativo entro un’economia sempre più meramente di valenza cromatica dell’immagine, fatta ormai di piccole allusioni appena svelate nominalmente nella citazione d’oggetti o riscontri figurativamente riconoscibili. E sono quei particolari tagli totalizzanti, come di pavimenti cromaticamente assai accesi rovesciati sullo sguardo dello spettatore, a permettere un dispiegamento determinante del colore, la cui clamorosa affermazione di diritti della sensitività immaginosamente più accesa condiziona qualsiasi altro elemento concorrente alla qualificazione dell’immagine. E perciò ne determina la natura. Erede allora Ramella d’un civiltà del colore tutta europea, che ha origini fra le esperienze di Fauves e di Nabis e le successive loro vicende. 
Il confronto con New York, all’inizio degli anni Novanta, le suggestioni assillanti, claustrofobiche, della subway sollecitano la sua immaginazione a una sorta di espiazione linguistica che riguarda il tessuto quanto il taglio della proposizione pittorica, e la scrittura, ormai essenzializzata, a traccia diretta dal tubetto di colore, e le gamme orientate verso i neutri, lontane dagli accesi clamori precedenti. Ed è proprio a metà dei Novanta che quelle superfici cominciano ad animarsi segnicamente, e le pareti da connessioni ambientali quasi d’accenno prospettico si fanno semplicemente brani di superfici murarie, ove irrompono sagome schematizzatissime di guerrieri, di archi, di frecce. E siamo appunto al primo dei tre cicli recenti attraverso i quali la pittura di Ramella si presenta a Roma. A conclusione (provvisoria) d’una vicenda che va verso il traguardo d’un mezzo secolo di piacere dell’esercizio della pittura.
Questo infatti è verisimilmente il denominatore immaginativo che tiene insieme non soltanto i tre cicli qui presentati, linguisticamente fra di loro sufficientemente affini nell’impianto morfologico, ma la varietà stessa, dunque assai articolata, dei differenti momenti di pronunciamento pittorico attraverso l’enunciazione dei quali corre la ormai lunga vicenda creativa di Ramella. Intendo dire un forte desiderio di pittura, espresso sperimentando possibilità diverse, fra colore, forma, segno, e liberamente muovendosi fra figurazione e non. Con una incondizionata disinvoltura di piacere della pittura che forse proprio nella spettacolarizzazione del suo Oriente sembra giunta ad affermarsi in modo di più pieno godimento e in termini della maggiore disinvoltura. Questo è il frutto finora più spinto dell’indipendenza e dell’insubordinazione immaginativa di Ramella.

 

LEA MATTARELLA
Ramella accende le luci dell’Est, in “Tutto Libri” di “La Stampa”, 22 luglio, 2006, Torino

Più di dieci anni di attività di Giorgio Ramella, torinese classe 1939, sono raccontati in questa mostra romana curata da Enrico Crispolti. E raccontare è proprio un termine che gli si addice, perché Ramella, come notava qualche anno fa Nico Orengo, è pittore narrativo. La sua storia questa volta è rigorosamente divisa in tre capitoli, tre momenti del suo fare artistico. L'artista è un viaggiatore narrante. Il suo immaginario è stato in un tempo e in uno spazio antico e ci è arrivato dalla Street Art, poi ha raggiunto Van Gogh ad Arles e infine eccolo tra sultani e odalische, palmeti e mezze lune, in un'atmosfera sensuale e fatata dove riscrive la sua versione delle Mille e una notte.
Tutta la prima parte della mostra si muove tra colori, dati direttamente dal tubetto sulla tela, ma con ordine, mai con foga, e segni evocativi. Ne nasce una griglia coerente in cui si incrociano antenati guerrieri, frecce partite alla conquista di un bersaglio, tracce del passaggio di qualcuno che adesso non c'è più. Si tratta di un'interpretazione dello spazio che sta a metà tra i graffiti delle grotte e quelli metropolitani. Ramella dipinge e poi incide sulla materia pittorica che è densa, piena e a volte sembra quasi un panneggio. Sicuramente dietro quel nero misterioso, quei grigi così ben declinati si nasconde qualcosa, pulsa una specie di forza emotiva che si configura come mito e come immagine onirica la cui potenza immediata è proprio nell'osservazione del reale, prende spunto da questo.
E il mito si palesa subito nel ciclo dedicato a Vincent in cui Ramella indaga, spia, afferra lo sguardo del pittore olandese. Trasporta anche te dentro una specie di inquieta intensità emotiva: non c'è tregua su quella parete perché il binomio di artista ritratto e artista ritraente afferrano, scuotono, non lasciano la presa. Con il giallo con cui Van Gogh ha dipinto il suo ultimò Campo di grano e con la stessa pennellata febbrile, Ramella gli dipinge il volto. Ed è come se gridasse.
Ma come per incanto, come in tutte le favole che si rispettino, ecco le «luci dell'Est», di un Oriente che sa di spezie e di profumi, di abbandono sereno e indolente. La comoda poltrona auspicata da Matisse si concretizza in interni che si aprono su cieli in cui persino le nuvole non minacciano niente di brutto, semmai daranno refrigerio. Il giallo aspro di Van Gogh è diventato luce appagante. Chi non vorrebbe abitare questi quadri per un po'? Gli idoli femminili che vi sono ritratti con sapiente sintesi hanno l'aria beata di chi ha trovato lo spazio ideale per stare. Anche per questo non ti stanchi di guardarle.

 

MARINA PAGLIERI
Ramella emoziona con i colori, in “Aci News”, n. 4, settembre – ottobre 2006, Torino

Giorgio Ramella ama i colori forti, la pennellata energica. Anche per questo si ispira volentieri alla pittura e agli autoritratti di Van Gogh. E guarda con attenzione alle terre d’Oriente, alla magia dell’India. Torinese, già docente al Liceo Artistico e all’Accademia Albertina, ha presentato quest’estate una personale al Complesso del Vittoriano a Roma. Ramella, considera la mostra romana una tappa importante? “In un certo senso sì, volevo presentare fuori dai miei soliti luoghi una summa degli ultimi dodici anni di lavoro: dai graffiti preistorici, alla serie “Vincent”, ai dipinti orientali. Ora con il gallerista Alberto Weber sto preparando un’esposizione che sarà allestita in un castello medievale a Rovereto. Continuo sui soliti temi, accentuando la sintesi e la vena surreale”. Sono i viaggi a ispirarla? “Non credo sia necessario viaggiare per dipingere i luoghi. Anche se quest’estate ho cercato di catturare nei disegni la luce e l’incanto dell’isola greca in cui mi trovavo. Ho dedicato diverse tele all’India, pur senza esserci mai andato. Il mio punto di partenza sono stati alcuni libri sulla cultura e l’arte amatoria di quel paese dai quali ho tratto ispirazione. Lo stesso è successo per i dipinti a soggetto africano, nati da una riflessione sui versi del senegalese Senghor”.

 

LEA MATTARELLA
a Oriente verso sud, in catalogo mostra
Officine Grandi Riparazioni, Torino 2009

“Gli elefanti in Africa non li ho mica mai visti!”, dice ridendo Giorgio Ramella mentre mi mostra i suoi ultimi quadri. Ma io già lo sapevo che più che di viaggi qui si sarebbe parlato di miraggi. Per tutti coloro che si avvicinano alle sue tele è subito chiaro che l’altrove di Ramella, la sua Africa, il suo Oriente da Mille e una notte sono proprio, come le storie raccontate da Shehrazad al sultano, magnifiche invenzioni letterarie. Per salvarsi la vita. Certo, anche loro sono nate per questo. O comunque per renderla meno claustrofobica, per permettere alla mente e all’occhio di attraversare spazi lontani e incantati, assaggiandoli, annusandoli, ascoltandone il suono misterioso. Per condurci nel più sorprendente dei viaggi e dei miraggi, quello dell’artista che incontra il mondo nel proprio studio e lo irradia di luci. Perché se è vero quello che dice Paul Nizan, mai troppo ottimista né felice, che il viaggiatore è un amante senza amore, il pittore che lascia andar via una parte di sé e con l’altra aspetta i risultati di quell’escursione, il bottino di immagini, leggende, miti, sogni, incubi e fantasie per mettere in scena un mondo che possa placare la nostra nostalgia dell’assoluto, questo sicuramente ha a che fare con le trame sotterranee della passione. E della felicità.
Nelle ultime opere di Ramella riemergono i colori, i profumi, il lessico di un Oriente lontano e di un Africa di abiku, spiriti bambini che anche quando inquietano sembrano più burloni che feroci. Ma non è solo una questione di linguaggio, di fonemi che si aggregano per costruire immagini che hanno quel sapore lì. Non basta a suggerire paralleli, a tessere rapporti un immaginario di cupole, di minareti, di palme e di elefanti che ovviamente possiede una potente e perentoria convinzione visiva. È anche un questione di forma. La costruzione di queste opere evoca proprio l’espediente narrativo della Mille e una notte, la scatola preziosa che contiene un involucro da aprire, il quale ne trattiene un altro ancora. Il racconto nel racconto. Lì c’è un narratore che dà la parola alla fanciulla che intrattiene il sultano, la quale la cede ai protagonisti delle sue storie che a loro volta ne hanno di nuove da narrare… Proprio come succede qui. C’è un’opera felicemente astratta che si apre a mostrare un altro piccolo mondo di animali e piante, di tramonti e luci. Ma lontano c’è ancora una porta davanti alla quale passano impassibili gli elefanti altalenando sulle loro grosse zampe. Oppure sul fondo ecco spazi infiniti, improvvise accensioni di colore saturo, ma anche profonde oscurità in cui la luna si prende la sua rivincita di latte e porporina.
Opere come La Grande nuvola, La Caccia, Orizzonte blu, L’elefante e la palma hanno un prologo di sapienti tessiture, labirinti di decorazioni dove è possibile far viaggiare lo sguardo in una caccia gioiosa di emozioni visive. Ma Ramella suggerisce una finestra, apre uno spazio su una nuova storia, ci conduce letteralmente dentro la pittura. E così, dietro queste pareti colorate, tappezzerie brillanti di polveri argentate, di incastri tra triangoli, rombi e righe in cui pare sia esploso l’arcobaleno, aldilà di un sipario che sembra tessuto di argille e di terre, si acquatta un altro racconto, declinato per paesaggi incantati con il vento che agita le palme e lascia vagare le nuvole. Proprio queste si possono seguire di quadro in quadro. È facile riconoscerne l’andamento dondolante che somiglia in un modo imprevedibile a quello delle proboscidi degli elefanti. Sono loro la guida migliore attraverso le narrazioni dell’artista. Alla fine ti conducono in una Notte di pesci volanti, l’ultima opera realizzata per questa mostra che inaugura probabilmente il prossimo capitolo del romanzo figurato di Ramella. Un’oscurità, quella abitata dai pesci che si squarcia in un cromatismo abbagliante. “Il colore nuota” scriveva Nico Orengo qualche tempo fa a proposito dell’artista. E i pesci allora volano.

 

MARCO ROSCI
Africa e Oriente sulle tele di Ramella
in “La Stampa”, 12 ottobre 2009, Torino

L’officina dei sogni di via Cagliari (ossia l’atelier) di Giorgio Ramella ha ospitato lungo gli anni gli incubi da Gabinetto del Dottor Caligari della distorta Metropolitana del Bronx e l’antropologia dei graffiti tribali, gli “occhi di Van Gogh” e il Kamasutra indo-persiano. Ora si sposta “a Oriente verso Sud”, come recita la nuova mostra, curata alle OGR da Lea Mattarella. Il titolo racchiude le suggestioni delle grandi tele dell’artista torinese, i suoi viaggi che, come sottolinea la curatrice, assomigliano più a “miraggi”, dove “l’altrove, la sua Africa, il suo Oriente da mille e una notte sono proprio, come le storie raccontate da Shehrazad al sultano, magnifiche invenzioni letterarie”.
Nell’enorme spazio industriale nudo delle OGR, affine a quell’officina dei sogni e reso magico e misterioso dallo svuotamento, i piani scenici disarticolati in bianco graffito e giallo uovo di Luce di luna 1 del 2001 rotti solo da un paesaggio surreale blu notte visto da una finestra sghemba, riappaiono tali e quali nel 2005 in nero con graffiti bianchi con l’intatto blu notte della finestra.

 

FRANCESCA DI BIAGIO
Mostra India e Africa, viaggio senza tempo di Ramella
in “Il Giornale” 18, novembre 2009, Milano

Il tema del viaggio, vissuto e immaginato, è al centro delle venticinque tele di Giorgio Ramella. A Oriente verso Sud è un percorso, che, partendo dall’India per terminare nell’Africa Centrale, si snoda attraverso un trionfo di colori accesi, una fantasiosa composizione di temi ricorrenti, come gli elefanti e le nuvole, e una riproduzione pittorica di tessuti e manufatti etnici.
L’India e il continente africano di Ramella sono rielaborati attraverso forme geometriche, incisioni e piccoli sipari che si aprono su scorci incantati di paesaggio. “In molti mi chiedono a cosa mi sia ispirato in queste pitture – confessa l’artista – a tutti rispondo: nient’altro se non la mia fantasia. Forse l’Africa che dipingo, dove mi sono recato poche volte, mi appartiene da sempre e fa parte del mio desiderio di evadere e dare libero spazio all’immaginazione”.

 

MARCO DI CAPUA
Fly Zone, in catalogo mostra
Palazzo Chiablese, Torino 2011

(Guardo uno stupendo trittico che sembra misurare la posizione dell’aereo – questo sigillo, questo testimone chiave o autore secondo – rispetto alla terra. È come nell’esercizio di un astronomo, l’osservazione di un satellite nuovo, a cui non si è dato ancora il nome. E come l’ombra proiettata dell’apparecchio definisce i suoi stessi spostamenti rispetto a noi, l’arrivare, l’andarsene, così la pittura, ti dici, è il posto giusto per stabilire e rappresentare distanze. E comunque, di certo è il modo migliore per fissare sensualmente questa impressione di spazio per cui tu sei qui e tutto il resto è là fuori. Seguo i pensieri come le maglie di una stessa catena e ricavo anche questo: fateci caso, qualsiasi sia la gittata dello sguardo di Ramella, in genere vasta, potente, è come se lui non la orientasse che da uno spazio intimo, chiuso, aperto solo in un punto. Non paesaggi ma inquietissimi interiors, viaggi in, anzi da una stanza e grazie ancora di tutto monsieur Matisse. Il quadro è una finestra.
Viene in mente un’ultima cosa, e non è che adesso io ci pensi solo perché qui c’era (c’è) questo aereo: il fatto è che la pittura di Ramella ogni volta risveglia l’energia di un attraversamento, di un passaggio (oltre che di un paesaggio), strappa all’opacità e porta via con sé una parte di mondo, come tracciandone la mappa territoriale e componendone il catalogo per un’arca volante che nella sua ricognizione non dimentichi animali né piante, architetture, rovine, templi, piramidi, esseri umani, sabbie, fiumi, tramonti, nuvole, e davvero se li porti via tutti, unificandoli secondo connessioni impreviste e spensierate. L’aereo (ora è un aggettivo) Giorgio la consegna a domicilio, cioè a noi, al nostro sguardo, questa specie di sua cosmogonia colma, splendente, burrascosa. Altro che lettere.

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